Sull’onda lunga dell’ostracismo storico e del dibattito sul neofascismo, il classicismo italiano difende sempre meno vigorosamente le ragioni della sua esistenza. Soprattutto nei confronti di chi, evidentemente, non ha per nulla capito il suo vero senso.
Da Princeton a Roma
Quando la civiltà inizia a fare piazza pulita delle sue radici in nome dell’ideologia, la suddetta civiltà rischia di essere alla frutta. O meglio, rischia di cadere in una semplicistica classificazione, senza considerare attentamente quello che si sta giudicando. Si capisce allora come la definizione di “follia suicida” data dal filosofo Remì Brague a proposito dell’abbandono del greco e del latino da parte di alcune facoltà rinomate, prima tra tutte quella di Princeton, calzi a pennello per spiegare una situazione che va avanti ormai da molti anni e la cui onda lunga continua a fare danni.
L’onda della Cancel culture, di un processo che negli ultimi anni ha tentato di mettere sotto accusa molti importanti fatti storici, è arrivata infatti a toccare anche il classicismo ed i suoi millenari prodotti. “Cultura dello stupro”, “misoginia” e “violenza” sono infatti solo alcuni dei commenti che si possono trovare per definire dei testi vecchi anche di tremila anni. Ad esempio, una tragedia greca che parla di infedeltà o una commedia latina che prende in giro il gestore di un bordello.
La caratterizzazione social di questo dibattito, nato nel 2017 ed esploso in parallelo al movimento americano del Black lives matter, ha portato negli anni ad inglobare qualsiasi cosa fosse stigmatizzabile nel quadro di questa forma fai-da-te di giustizia sociale.
Inquadramento di un classicismo già morente
Da lì in poi il passo è stato breve. Un attimo per revisionare non solo quello che l’uomo ha fatto, ma anche e soprattutto quello che l’uomo ha scritto. Non bastavano le decine di statue rimosse e distrutte dai seguaci di questo movimento (tra le quali figurano quella del “nostro” Cristoforo Colombo e di James Cook, il cartografo che scoprì l’Australia). La cultura classica, già da tempo considerata da molti come un’appendice sempre meno importante nella storia culturale del mondo, ha ricevuto un attacco deciso all’interno dei suoi più antichi atenei.
Curioso il fatto che la maggior parte degli atti espressi da questa “cultura del boicottaggio” sia avvenuta in due paesi, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, che nei secoli hanno saputo più di tutti valorizzare la cultura classica. Questo principio di “revisionismo letterario” ha quindi trovato terreno fertile dove meno lo si sarebbe aspettato.
Il problema è che tutto questo contesto risulta essere un cane che si morde la coda. Come far capire infatti a chi promuove questa mentalità che gli scritti “orribili” del passato fanno anch’essi parte della nostra storia e che sono stati un viatico per la conquista di sempre nuovi diritti se queste opere non vengono più prese in considerazione e studiate? Negare ciò che ci ha portato ad essere come siamo è il miglior modo per ripetere gli errori del passato. Inoltre ammettiamolo, il latino e il greco non hanno mai ucciso nessuno, al massimo hanno fatto leggermente ammattire qualche studente.
Retaggio neofascista
In Italia, culla del classicismo, il problema si sdoppia poi nella storia degli ultimi cento anni. Il passaggio attraverso la “cultura” fascista, infatti, ha lasciato dietro di sé delle scorie pesanti per il classicismo. I principi base della cultura classica, quali la concezione del bello e dell’armonia racchiusi nella neoclassica definizione di Winckelmann “nobile semplicità e quieta grandezza”, sono stati assimilati dalla dittatura e sfruttati per costruire il ben conosciuto concetto di “eredità italica” che noi tutti ben conosciamo.
Dal 1945 in poi, quindi, si è tentata ogni strada per slegarsi da tutto quello che aveva a che fare con il fascismo. Senza peraltro trovare soluzioni definitive in alcuni contesti. Non è un caso se la nostra scuola ancora prende le sue mosse dalla riforma Gentile del 1923. E resistendo a qualsiasi decreto correttivo sia stato fatto successivamente.
Il problema sta nel fatto che ai giorni nostri tutto il cuccuzzaro di politici ed intellettuali vari, è ancora estremamente attento ad evitare qualsiasi possibile retaggio fascista. Ciò avviene anche trattando le lettere classiche come un qualcosa di rischioso. E non considerando il fatto che esse, a differenza del fascismo, hanno più di 2000 anni di storia. Quindi il problema non è il concetto, ma l’utilizzo di questo.
Revisionare il classicismo: medicina o veleno?
La questione potrebbe sembrare oziosa o addirittura ironica, ma non lo è. Se si uniscono i puntini tra l’ostracismo letterario e quello antifascista si riesce a comprendere come, negli ultimi anni, il liceo classico veda delle percentuali di iscrizione vicine al 3%.
Sfatiamo subito un mito: non è vero che, per usare le parole dell’ex ministro dell’economia Tremonti “col greco e il latino non si mangia”. Se si fa una ricerca veloce tra gli headquarters di tante multinazionali, si noterà infatti che una grande percentuale esce da scuole di stampo umanistico. Stessa cosa per le facoltà universitarie con difficili test a numero chiuso. La percentuale degli studenti a formazione umanistica che accedono a medicina o giurisprudenza sono nettamente maggiori di quelli a formazione scientifica. Non bisogna per forza fare i professori di lettere una volta usciti da un liceo classico.
La Cancel culture, insomma, da presunta grande medicina di una società malata dell’uomo bianco (e fascista) rischia di cadere nel tipico errore che occorre allo studente di quarta ginnasio che si trova per la prima volta a tradurre il termine farmakon. Esso significa sì “medicamento” ma ha anche l’accezione contraria di “veleno”. Tutto dipende dal farne un uso non contraddittorio in un dibattito che, a ben guardare, non trova neppure le ragioni della sua stessa esistenza. Basterebbe andare oltre la semplicistica definizione, ripresa anche da Alice Borgna, di “tutte storie di maschi bianchi morti“.