Stefano Cucchi morì il 22 ottobre 2009 all’età di trentun anni, quando ancora si trovava in custodia cautelare presso il carcere di Regina Coeli. Precisamente una settimana prima, il ragazzo fu incriminato dai Carabinieri poiché trovato con 12 confezioni di hashish, tre di cocaina e una pasticca di sostanza inerte.
Durante il processo per la conferma del fermo in carcere, Stefano parlava e camminava a fatica; presentava inoltre degli ematomi agli occhi. Le condizioni del ragazzo peggiorarono visibilmente e dimagrì con il passare dei giorni (già destava uno stato di denutrizione), tanto da dover essere portato d’urgenza all’ospedale Fatebenefratelli, ove Stefano rifiutò il ricovero.
Tuttavia é necessario tener presente che quest’ultimo, al momento della visita in ospedale, riportava una frattura della mascella, un’emorragia alla vescica e due fratture alla colonna vertebrale.
È indicativo il fatto di come questi dati vennero insabbiati e la colpa ricadde sull’anoressia di Stefano, come conferma il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi.
La famiglia rimase ignara delle condizioni precarie in cui Stefano verteva (nonostante avesse chiesto più volte riguardo la sua salute) fino al momento dell’autopsia del corpo.
A questo punto la famiglia disperata si appellò agli avvocati dando inizio ad un caso giudiziario, conosciuto come “Caso Cucchi”, per conoscere le reali cause della morte del ragazzo e per punire i suoi aguzzini.
Nonostante ciò il caso è ancora aperto dopo ben 9 anni e solo di recente sembrano esserci alcuni sviluppi relativi alla vicenda.
Sicuramente le campagne di sensibilizzazione promosse dalla sorella, Ilaria Cucchi, sono state fondamentali per riscuotere consenso da parte della cittadinanza circa l’ingiustizia che ha interessato Stefano, come tante altre vittime di un sistema penitenziario da rivedere.
A raccontare la morte di Stefano è anche Maurizio Cartolano con il documentario “148 Stefano mostri dell’inerzia”, presentato al Festival del cinema di Roma.
Tuttavia io ritengo che ancor più importante al fine di far chiarezza sul caso, sia stato il film “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, distribuito da Lucky Red e Netflix e che vede protagonista un ineccepibile Alessandro Borghi, nei panni di Stefano Cucchi. Il film ha riscosso un interesse non indifferente su Netflix (oggi piattaforma preferita dai giovani) tanto da essere addirittura selezionato come film d’apertura della sezione “Orizzonti” alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Dunque, a mio parere, questo dato è significativo poiché la pellicola di Cremonini è uscita nel 2018, lo stesso anno in cui sembrano esserci sviluppi riguardo il “Caso Cucchi”.
L’11 ottobre 2018, infatti, Francesco Tedesco (uno degli imputanti) ha ammesso l’avvenuto pestaggio di Cucchi, affermando di non avervi partecipato ma, al contrario, di aver cercato di fermare i suoi colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro.
La storia di Stefano non è ancora chiara ma la giustizia sembra che stia ora facendo il suo corso. Non resta che aspettare e augurare alla famiglia di Stefano che le risposte che desiderano arrivino presto.
Ciò nonostante il dolore per la perdita di un figlio, peraltro ucciso in carcere, resterà per sempre una piaga all’interno della famiglia della vittima.
Dunque è doveroso rivedere il nostro sistema penitenziario in modo da garantire che episodi come questo non accadano di nuovo poiché è indiscutibile punire chi commette i reati più o meno gravi, ma allo stesso tempo è necessario che le guardie non abusino del loro potere e che non dimentichino la loro umanità anche in un luogo di perdizione, come può essere quello della prigione.
Ragion per cui è altrettanto doveroso punire anche chi, come in tanti altri casi, è stato omertoso e ha deciso di tacere per salvaguardare la “bella immagine” di un istituto penitenziario o in generale del sistema penitenziario italiano.
Sara Albertini