Troppo spesso associamo fenomeni come il caporalato agricolo alle zone meridionali d’Italia eppure siamo sicuri che sia davvero solo li il problema? Il caporalato è una forma di sfruttamento lavorativo che prende il nome dal caporale. Egli è un intermediario che assume mano d’opera per brevi periodi senza rispettare i diritti dei lavoratori. Questo fenomeno non è solo circoscritto al campo agricolo ma a qualsiasi forma lavorativa che presenta questi tipi di pratiche illecite. Siamo stati abituati a collegare questo problema ai tanti manovale stranieri sfruttati nei campi della Puglia, ad esempio. Grazie ai mezzi di informazione odierni, però, abbiamo capito la gravità del problema, ancora troppo spesso sottovalutata.
Per approfondire un tema di ingiustizia riguardante il settore agricolo leggi anche il mio articolo sulla vicenda Senatore Capelli.
1. IL QUADRO GENERALE
Se volessimo ritornare alla domanda inziale, siamo sicuri che il caporalato agricolo sia una forma di sfruttamento del lavoro legata solamente alle regioni meridionali? Assolutamente no. Il caporalato, come altre forme di sfruttamento, è un fenomeno presente in tutto il territorio italiano. Sicuramente le percentuali di irregolarità sono molto diverse ma forme speculative come questa se ne vedono in tutta Italia.
Secondo l’INPS, l’Italia ha 184.303 imprese nel settore agricolo con 1.056.984 dipendenti nell’anno 2019. Il territorio con un maggiore fabbisogno di manodopera agricola è il sud che presenta il maggior numero di lavoratori. Potremmo, dunque, già immaginare come in una regione esigente di operai agricoli è “normale” segnalare una più alta percentuale di lavoro illegale. Difatti il secondo rapporto Presidio intitolato Vite Sottocosto ci fa notare come i dati tra nord, centro e sud sono molto diversi. Il 14,3% del Nord contro il 16,3% del Centro e il 28,8% nel Mezzogiorno.
Come afferma uno dei principali esperti del caporalato, Marco Omizzolo: “il problema, come si può immaginare, non è confinato in una particolare zona d’Italia, ma è diffuso da Sud a Nord”. Casi emblematici come Foggia o Latina ne sono l’esempio. Se da una parte abbiamo un territorio costellato di imprese agricole che reclutano manodopera illegale a basso costo da luoghi o villaggi informali principalmente popolati da immigrati(Foggia), dall’altra abbiamo una forte omogeneità di operai indiani costretti ad essere sfruttati per ripagare i debiti di viaggio, contratti grazie all’intermediazione di un connazionale che si occupa di reclutare persone direttamente dal paese d’origine, o per ottenere i documenti necessari per essere regolarmente in Italia.
2. LA PAC
Le motivazioni alla base di questo ingiusto e fastidioso fenomeno sono da ricercare, in primis, nella cosiddetta PAC (politica agricola comune). L’Europa, fin dal trattato di Roma, ha previsto l’adozione di norme e aiuti a favore del settore agricolo. Ci basti solo pensare alle possibili calamità naturali che potrebbero colpire le piantagioni ogni anno. Senza soffermarci troppo, però, è importante dire che l’agricoltura deve essere “protetta” da possibili congiunture negative molto frequenti, di varia portata e natura.
L’Unione europea dunque ha immaginato e studiato un piano che potesse difendere gli agricoltori attraverso l’adozione di prezzi garantiti. In sostanza sono stati stanziati miliardi e miliardi di euro che hanno assicurato nel tempo una equa remunerazione a quei prodotti ingiustamente svantaggiati. Questa politica, però, ha portato con il passare degli anni ad una serie di problemi. La formazione di eccedenze o l’aumento delle spese di bilancio degli agricoltori, ad esempio, che, sicuri del proprio profitto, si sono sempre “adagiati sugli allori”.
Dunque ritornando ora al problema dello sfruttamento lavorativo possiamo fare due considerazioni. Da una parte la PAC non ha previsto delle indicazioni che potessero combattere questo fenomeno putando tutto sui redditi degli agricoltori. Dall’altra, come in parte abbiamo detto, è stata proprio questa politica a creare una dipendenza dai prezzi garantiti. Gli agricoltori si sono sempre preoccupati di problemi come la massimizzazione delle rese piuttosto che provare ad acquisire una vera e propria “cultura d’impresa” favorendo, anche, il lavoro nero.
3. LA GDO E I PREZZI
Come possiamo immaginare, un altro dei grossi problemi da affrontare, che ha favorito fenomeni come il caporalato, è l’equilibrio dei prezzi. Abbiamo già detto che l’UE ha attivato un piano stabilizzatore dei prezzi ma come e perché questi sono cosi oscillanti?
Negli ultimi anni la GDO(grande distribuzione organizzata) ha stravolto il mercato. Un intermediario(molto spesso non produttore) che vuole accaparrarsi dei lotti di vendita presso una catena della GDO deve affrontare le cosiddette aste al doppio ribasso. Un sistema che ha drogato il mercato con prezzi molto bassi e che prevede l’adozione di due aste: una prima dove possono “passare il turno” solo coloro che propongono il prezzo più basso e una seconda, che decreta il vincitore, dove domina colui che indica il prezzo minore di tutti.
A questo punto è facile capire come questi intermediari si avvalgano della facoltà di remunerare la produzione agricola a prezzi stracciati. Giustamente, devono pur “mangiare qualcosa”. Si pensi, addirittura, che molto spesso queste aste vengono bandite in un periodo precedente alla raccolta e quindi il grossista potrà prevedere con facilità i prezzi dei prodotti che andrà a comprare. Di conseguenza, questa enorme macchina, si accanirà sui più piccoli costretti a cedere alle lusinghe di chi possiede una forza contrattuale più potente e quasi “obbligati”, dunque, a favorire il lavoro nero.
Un ultima problematica riguardante questo tema è sicuramente l’evoluzione e la formazione dei prezzi agricoli sul mercato. Oggi, i prezzi di listino delle borse merci sono quelli di riferimento per prodotti considerati “di eccellenza”, che vengono poi decurtati in base alle procedure di controllo qualità previste dall’acquirente. Nientemeno, molto spesso, i prezzi “di eccellenza” sono riconducibili ai prodotti della GDO che, come abbiamo capito, ha margini bassissimi. Allora adesso possiamo capire perché gli agricoltori più piccoli sono completamente in balia del mercato.
4. CONCLUSIONI
Dunque è normale che questo ingiusto sistema risalga la filiera fino ai più piccoli che, non avendo alternative di mercato, sono costretti a sottostare a queste politiche. La politica agricola comune ha sicuramente aiutato ma, nello stesso tempo, ha creato un sistema altrettanto dopato. Allora come se ne esce?
Sicuramente il settore agricolo è stato sempre relegato ai margini dello sviluppo industriale del nostro paese ma non bisogna comunque vittimizzare questo settore. L’agricoltura italiana è invidiata nel mondo e possiede qualità uniche che la rendono una concorrente internazionale con grandi possibilità. È importante però che queste potenzialità siano riconosciute non solo a parole.
C’è bisogno da una parte di un intervento istituzionale che possa favorire un trattamento più equo delle piccole e medie imprese e dall’altra di una maggiore consapevolezza dello stesso settore. È necessario creare una “cultura d’impresa” capace di costruire aziende sempre più forti e competitive.Valorizzare i prodotti e abbandonare la logica di commodity(alimenti visti come beni di consumo di massa) è necessario affinché molti agricoltori possano abbandonare le logiche di massimizzazione delle rese facilitando una transizione green attraverso l’innovazione e l’utilizzo di tecniche moderne. In ultimo, però, è indispensabile cambiare dal basso questo sistema considerando e valorizzando maggiormente il cibo che mangiamo.
Tutti noi dovremmo essere più attenti a ciò che compriamo perché, quando siamo d’avanti al banco frutta di un ipermercato e quello che vediamo ha un basso costo ma un alta qualità, dobbiamo capire che, forse, dietro quel prodotto ci sono delle persone che sicuramente non potranno assolutamente essere pagate con dei prezzi così bassi.