C’è molto più di un iter giuridico dietro a quell’evento che ormai tutti abbiamo imparato a chiamare Brexit.
C’è la fotografia di un’epoca, la nostra, che in fondo ancora non abbiamo capito. Un’epoca che sotto sotto però ci fa paura perché cambia ad una velocità che non ci lascia il tempo di prepararci. Un po’ come quei sogni in cui sai di dover partire, un aereo o un treno ti aspettano in 5 minuti ma tu non sei ancora pronto e, mentre inciampi ovunque, non sai come ci sei finito a rincorrere un impegno che non sapevi di aver preso. “Quando l’ho deciso?”. Nel Regno Unito una data ce l’hanno: 23 Giugno 2016.
Non sta a questa riflessione stabilire se fosse più giusto, quel giorno, un voto a favore del Remain piuttosto che del Leave. Quello che è certo, cronaca di un delitto perfetto, è che per tutta la campagna referendaria la (non) sottile linea tra verità e menzogna è andata scomparendo. Ed è così che gradualmente i social sono andati riempiendosi di notizie anti-UE che potevano portare qualsiasi persona poco informata a chiedersi come si fosse riusciti a vivere sotto un regime, con capitale a Bruxelles, per tanto tempo. Come mai non si era usciti prima? D’un tratto l’Unione appariva come un catalizzatore di occasioni perdute, di denaro perduto. E allora sotto con le fake-news, armi potentissime di un secolo che va troppo veloce, in cui le notizie fanno scalpore per il periodo-record di 24h e in cui il titolo della notizia vale più dell’articolo che contiene.
L’ombra della strategia
E’ così che, come in tutte le grandi invenzioni, c’è sempre chi ci arriva prima e sa sempre cosa fare.
Non sono un caso gli 11 incontri tra il magnate inglese Arron Banks e l’ambasciatore russo nei pochi mesi precedenti e seguenti il voto di Giugno; non sono un caso le false notizie, che nella primavera del 2016 cadevano come gocce di un temporale, tutte di stampo ferocemente nazionalista.
E’ bene sottolinearlo: non è un caso, è la tecnica di uno stratega dei nostri gironi che ha un nome e un cognome: Steve Bannon.
Bannon non è né uno sprovveduto né un folle, ma ha capito prima di tutti come plasmare questa liquida società baumiana. “Trova un problema ed inondalo di merda” sembra essere il motto della sua vincente filosofia: questa è stata messa a servizio di Donald Trump durante le presidenziali del 2016. Bannon era infatti il curatore ufficiale della campagna (la quale per altro potrebbe aver avuto influenze dalla Russia – ancora lei – nel cosiddetto “Russiagate”, scandalo in cui il nome di Bannon compare più volte).
Il paradosso
Ma si diceva del Regno Unito. Quale ruolo ebbero le fake news e la campagna d’odio sull’elettorato? Se dei numeri non possono indicare con precisione quante persone furono traviate da questo modello di comunicazione, rendono bene il senso i dati riportati da Google Trend relativi proprio al giorno seguente il Referendum. Cosa ci dicono questi dati? Innanzitutto, che la seconda domanda più digitata su internet nel Regno Unito il 24 Giugno 2016 è stata nientemeno che “What is EU?” seguita subito dopo da “What happens if we leave EU?”. Apriti cielo.
Tutto ciò in realtà potrebbe essere divertente per alcuni. Sarebbe meglio dire che però la situazione ha del paradossale e del drammatico.
Ma non finisce qui, perché dopo aver compreso l’importanza della Brexit, gli stessi dati ci dicono che i mouse non si sono fermati: è così che lo stesso giorno le altre domande più gettonate sono state “come prendere un passaporto irlandese” e “trasferirsi a Gibilterra”.
Ed ecco che si ritorna allora a quella sorta di condizione-sogno di cui si parlava poc’anzi: come si era arrivati lì? Perché si era usciti da una realtà che non si conosceva? Tuttavia era successo. Cosa ne sarebbe seguito? Nel Giugno del 2016 si dichiarò subito la data-limite per raggiungere un accordo di sgancio dall’Unione Europea, una data che avrebbe comportato un’automatica uscita del Regno Unito indipendentemente da un accordo, indipendentemente da tutto: il 29 Marzo 2019.
Oggi
Quel giorno forse, svegliandosi dal torpore, successiva alla consapevolezza era probabilmente seguita una speranza, speranza fatta di innumerevoli promesse durante la campagna referendaria e promettenti un futuro comunque roseo per il Regno.
E allora sotto con le elezioni politiche, fuori il Governo dello scommettitore Cameron e dentro Theresa May alla guida dello storico partito conservatore dei Thories e supportata dai maggiori promotori della campagna del Leave (per citarne alcuni: Nigel Farage – poi in qualche modo uscito repentinamente di scena – Boris Johnson e David Davis) con il compito di uno stretto negoziato con le Istituzioni europee perché uscire sì, ma non senza paracadute.
Facendo un grande balzo in avanti, forse unico modo per render conto al meglio di come sono andate le cose nel frattempo, arriviamo ad oggi. O meglio, ad alcuni giorni fa: il 15 e 16 Gennaio 2019.
Dopo aver perso buona parte dei suoi collaboratori e massimi promotori della Brexit (Farage appunto ma anche gli stessi Boris Johnson, che, dimessosi dalla carica di Ministro degli Esteri aveva mostrato pubblicamente il suo disappunto per la forma che gli Accordi stavano prendendo, e David Davis, che nel frattempo aveva lasciato la particolare delega di Segretario di Stato per la Brexit), la May si è presentata alla Camera bassa britannica, la House of Commons, per il voto definitivo sul testo negoziato con l’UE.
Fermi qui, ci ritorniamo fra poco.
L’aneddoto
Mentre ministri e sottosegretari cadevano come foglie, manifestazioni con decine di migliaia di partecipanti per un secondo referendum (sull’onda del “abbiamo sbagliato, la prossima volta lo chiediamo il giorno prima a Google cos’è l’UE”) imperversavano per le strade di Londra e gli stessi Thories si dividevano riguardo ai pareri sul testo che stava prendendo forma, Theresa May ha cominciato a capire di aver perso il controllo della situazione e con essa la possibilità di veder approvato il Brexit deal.
E allora sotto con le “minacce”: nell’impossibilità di ricominciare daccapo le trattative con Bruxelles lo scenario che si è andato delineando, negli stessi interventi pubblici della May, è stato più o meno questo “se cado io cadete anche voi e se il testo non passa sarà un disastro. Ma scordatevi un secondo referendum”.
E’ in tutto questo che si colloca una messa in scena senza precedenti: il 7 Gennaio il Governo paga 89 camionisti (fonte: il giornalista canadese Gwynne Dyer), 550 sterline l’uno, per simulare un ingorgo nel Kent, cosa che accadrebbe (garantisce la May) se il Regno Unito dovesse uscire a Marzo senza accordo. In particolare, qui ci si riferisce agli accordi commerciali che eviterebbero il sovraffollamento delle strade di accesso al tunnel della Manica e dei porti per le navi da cargo.
Il messaggio del Primo Ministro non è rivolto solo all’opposizione dei socialisti di Corbyn (preventivabile) ma anche, e soprattutto, alle forze centrifughe interne alla maggioranza (quelli che in Italia chiameremmo “franchi tiratori”) di cui sente di non avere più il controllo.
E quindi oggi
In questo clima, tutt’altro che disteso, May presenta il Brexit deal per la votazione alla Camera dei Comuni (dopo aver rinviato il voto già il mese precedente nella sicurezza di uscirne sconfitta) tra permanenti incertezze. Il responso è chiaro: 432 (contrari) a 202 (favorevoli). Un range di 230 voti che fa di questa votazione la peggiore sconfitta della storia.
In piazza sotto i teleschermi il popolo dei Remainers (o dei Leavers pentiti chissà) esulta. In aula Jeremy Corbyn si alza dal suo scranno per richiedere, nel punto più alto del suo discorso, il voto di sfiducia per Theresa May ed il suo esecutivo.
Il 16 Gennaio, il giorno seguente alla disfatta, nella House of Commons si torna quindi al voto, ma questa volta per decidere il futuro di May: responso negativo, la mozione di sfiducia costruttiva viene bocciata 325 a 306.
Una svolta, tuttavia, c’è stata: incassata la fiducia dei Comuni May si è detta subito pronta, la sera stessa, ad intraprendere un dialogo costruttivo con l’opposizione (sì, anche con Corbyn) per definire una linea il più possibile condivisa pur nel rispetto del voto del Giugno 2016 ed escludendo categoricamente l’ipotesi di un nuovo Referendum.
Un secondo referendum, infatti, rischierebbe seriamente di mettere in crisi sia l’efficacia che la legittimità del principale strumento di democrazia diretta dei nostri tempi.
Cosa ci resta?
Time flies by, direbbero gli inglesi, e Marzo è sempre più vicino.
Quel che resta di questo evento di portata storica non solo è un Regno Unito in ginocchio (con aziende e società in fuga), visibilmente provato da promesse non mantenute e prospettive sfumate. Non solo rimane la consapevolezza di un mondo che ancora non capiamo ma che c’è già chi sa come manipolarlo. Quel che rimane è soprattutto la fotografia di un’epoca e di una società, la nostra, senza punti di riferimento e pertanto assoggettabile ed indirizzabile verso scelte poco meditate, verso svolte poco ponderate e scenari caratterizzati da una fusione del comico e del drammatico.
Lorenzo Alessandroni