Le news della settimana ritornano come ogni mercoledì nel nostro Breaking News. Vi abbiamo già parlato della notizia più importante in Italia: il nuovo governo Draghi. Oggi, quindi, andiamo a vedere cosa succede fuori dai confini. Prima negli Stati Uniti, dove il presidente Trump ha ottenuto l’assoluzione nel processo di impeachment. Poi in Yemen perchè gli USA han rimosso gli Houthi dalla lista dei gruppi terroristici. Infine, facciamo ritorno in Myanmar dove mantiene il potere la giunta militare protagonista del golpe delle scorse settimane. Per lasciarvi con una chicca di colore vi parliamo anche del fenomeno clubhouse, il quale è arrivato a coinvolgere multimiliardari e capi di stato
Per conoscere il governo Draghi leggi anche: La Squadra di Draghi
L’Impeachment a Trump fallisce
Al senato il voto per l’Impeachment di Trump si è fermato a 57, forte dei 50 voti democratici e dai voti dei 7 senatori repubblicani anti-Trump. Non si è arrivati a due terzi del Senato (67 voti) come è richiesto negli Stati Uniti per far approvare un provvedimento di Impeachment. Il provvedimento era stato approvato alla Camera (The House negli USA) con 232 voti favorevoli e 197 contrari, dove non sono richiesti due terzi per l’approvazione come al Senato. Ma come era prevedibile, i senatori repubblicani non hanno voltato le spalle all’ex Presidente, per diverse ragioni: autentica fede Trumpiana per alcuni, opportunismo per molti altri. La base del Partito Repubblicano è saldamente in mano a Trump, e questo lo rende di fatto padrone del GOP. Qualunque politico repubblicano che voglia fare carriera non può di fatto andare contro Trump.
Un Partito Repubblicano a due facce
“Non v’è nessun dubbio, assolutamente nessuno, che su Donald Trump gravi la responsabilità, pratica e morale, d’aver provocato gli eventi del 6 gennaio… Donald Trump è colpevolmente e vergognosamente venuto meno ai doveri a lui imposti dalla carica che ricopriva…Anziché fermare l’assalto che lui stesso aveva provocato, Donald Trump ha, al contrario, allegramente – allegramente! – rimirato gli eventi in tv mentre montavano il caos e la violenza… Quando le orde che sventolavano bandiere con il suo nome e che nel suo nome erano convinte d’agire già avevano invaso Capitol Hill, e quando già a tutti era chiaro che la vita di Mike Pence era in pericolo, Donald Trump ha continuato ad emettere proclami via Twitter contro il suo vice-presidente.”
Questa era stata la dichiarazione di Mitch McConnell il giorno dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Un equilibrismo di parole e intenzioni dato che poi lo stesso McConnell, consapevole di non poter andare contro Trump, aveva ritardato il voto di impeachment al senato per impedire che Trump fosse giudicato mentre era ancora Presidente. Salvo poi invitare a votare contro l’impeachment per questioni giurisprudenziali, dato che il mandato di Trump era finito e non poteva essere più accusato (tesi piuttosto debole).
Il lento retro-front statunitense in Yemen
La non-riconosciuta guerra civile che imperversa in Yemen è stata a lungo ignorata dall’opinione pubblica occidentale. Tuttavia, il conflitto ha recentemente acquisito notorietà grazie all’amministrazione Biden.
Eccezione fatta per l’Iran, tutti gli altri Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen sono schierati a contrasto dei ribelli Houthi. Questo gruppo gode di un forte supporto tra la popolazione locale nonostante l’evidente relazione con Al-Qaeda nella Penisola Arabica. Non sorprende dunque che gli Stati Uniti abbiano classificato i ribelli Houthi come terroristi per tutta la durata del conflitto. Tuttavia, la situazione è cambiata.
A partire da questa settimana, gli Stati Uniti cesseranno ufficialmente di definire i ribelli Houthi come un gruppo terrorista. La decisione è stata presa nella speranza di stabilire le basi per la risoluzione della crisi umanitaria in Yemen. Non sono solo i combattenti a subire le conseguenze della ‘lotta,’ ma l’intera popolazione. Il dialogo è l’unico modo per porre fine al conflitto ed evitare che lo Yemen divenga il Paese più povero al mondo nel giro di un anno, come previsto dalle Nazioni Unite.
Il distaccamento statunitense dal conflitto è iniziato lo scorso mese, quando l’amministrazione Biden ha temporaneamente sospeso la vendita d’armi verso i principali Paesi coinvolti in Yemen, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Emulando l’esempio americano, l’Italia ha a sua volta posto fine all’esportazione di migliaia di missili.
La risoluzione pacifica del conflitto è ancora una lontana fantasia. Tuttavia, il lento ma progressivo distaccamento dei Paesi Occidentali è un segnale da non sottovalutare. Non è da escludere che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti decidano a loro volta di abbandonare il conflitto per salvaguardare i loro rapporti con gli Stati Uniti.
Myanmar tra proteste e nuove accuse alla ex-leader Aung San Suu Kyi
Il Myanmar è caduto nuovamente nelle mani dei militari dopo il golpe del 1 febbraio. L’ormai ex leader Aung San Suu Kyi era stata arrestata con l’accusa di avere dei walkie-talkie importati illegalmente, a questa accusa si è aggiunta quella di aver violato la legge sulle norme anticovid, la cui pena massima consiste in tre anni di reclusione. I militari, dopo aver forzatamente preso il potere, l’hanno anche modificata in modo da poter consentire la detenzione senza permessi del tribunale.
Dal giorno del golpe, però, le piazze si sono affollate di cittadini che manifestano contro il regime militare. Anche i monaci buddisti hanno manifestato per le strade di Yangon.
A soli dieci anni dall’avvio della transizione democratica sembra che il paese non abbia intenzione di ricadere in un regime militare oppressivo. I militari non si sono fatti trovare impreparati. Sono state avviate dure repressioni e tantissimi arresti, anche minacce di inasprimento delle pene, ma nulla è bastato a fermare la folla.
Come avevamo visto, non erano tardate le condanne di diversi paesi occidentali. Quello che, forse, i militari non si aspettavano era la critica da parte delle autorità di Pechino. Inizialmente sembrava che la Cina non volesse sbilanciarsi, rimanendo freddamente e rigidamente ancorata al principio di non-interferenza. Alla fine, però, Pechino si è sbilanciata, seppur con toni molto pacati e pragmatici, come tipico del loro stile.
Inizialmente Cina e Russia avevano bloccato la possibilità di raggiungere una dichiarazione congiunta del consiglio di sicurezza dell’ONU per condannare il golpe. Poi il cambio: la dichiarazione è arrivata due giorni dopo, chiedendo il rilascio dei dei politici detenuti arbitrariamente e ribadendo il supporto alla transizione democratica. Anche l’ambasciatore cinese in Myanmar ha espresso disappunto per la situazione in cui versa il paese.
Intanto la situazione non accenna a stabilizzarsi: continuano i blocchi all’accesso a internet, le banche del paese sono rimaste senza contanti e gli scioperi investono diversi settori, soprattutto tra i dipendenti pubblici.
Clubhouse tra Musk e Putin
Il titolo sembra uno scherzo, ma non lo è. Per chi ancora non conoscesse Clubhouse, questo è l’ultimo social arrivato sui nostri telefoni. L’ultimissima moda che sta spopolando in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, dove è stato bannato qualche giorno dopo il boom. Il social è accessibile solo tramite invito e, per ora, solo per gli utenti IPhone.
Il CEO di Tesla, Elon Musk, nella giornata di sabato ha deciso di provare a invitare direttamente il presidente russo Vladimir Putin in una conversazione su Clubhouse. Musk ha deciso di affidare il suo invito a un tweet, taggando direttamente l’account ufficiale del presidente della Russia.
L’invito non è passato inosservato. Dal Cremlino fanno sapere che han trovato la proposta interessante, il portavoce di Putin ha detto che prima è necessario capire meglio di cosa si tratti e come procedere, poi eventualmente si reagirà e si deciderà come rispondere all’invito.
Chi non vorrebbe sentire una conversazione tra Musk e Putin?