Anche questa settimana torna puntuale la rubrica che esplora i fatti più importanti della settimana appena trascorsa.
Sicuramente l’evento più importante è stato l’insediamento, al Campidoglio, del nuovo Presidente americano Joe Biden e della Vice Presidente Kamala Harris. Seguiamo con il rimpallo di accuse tra il Ministro Speranza e il Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, su di chi sia la colpa dei dati sbagliati dell’indice RT che sono costati, alla Lombardia, una settimana in più in zona rossa. Ci spostiamo in Africa dove, in Darfur, ci sono stati più di 150 morti a causa di scontri inter-etnici. Infine, un nuovo e crudele attentato terroristico colpisce i civili a Baghdad.
Biden e Harris, un’inaugurazione ricca di significato
Il 20 gennaio, si è svolta la cinquantanovesima Inaugurazione Presidenziale di fronte al Campidoglio del Presidente eletto Joe Biden e della Vice-Presidente Kamala Harris. Diverse figure di spicco hanno presenziato alla cerimonia.
Lady Gaga ha avuto l’onore d’intonare l’inno nazionale statunitense di fronte alla popolazione. Pochi istanti dopo, la portoricana Jennifer Lopez ha cantato due brani famosi in tutta America, ‘This land is your land’ e ‘America the beautiful.’ Tuttavia, a colpire maggiormente è stata la poesia della giovane poetessa Amanda Gorman, ‘The Hill We Climb.’ La ventiduenne ha richiamato i fatti accaduti lo scorso il 6 gennaio proprio di fronte al Campidoglio. Una forza violenta capace di distruggere il Paese, e di ritardare la Democrazia.
Inoltre, hanno partecipato diversi ex-leaders Democratici e Repubblicani, tra cui Mitt Romney, Hillary Clinton, Barack Obama e sua moglie Michelle. A lasciare il segno è stato però Bernie Sanders, divenuto virale grazie ai memes che hanno fatto il giro del web. Perfino Mark Hamill (Luke Skywalker) ha avuto difficoltà a non re-tweettare immagini che raffigurano il senatore nell’universo di Star Wars.
Kevin Carrara
L’Indice RT, Il rosso e l’arancione
Se fosse un film di Sergio Leone, l’indice RT sarebbe il “buono” … da capire chi, tra la regione Lombardia e il Governo italiano faccia la parte del “brutto” e del “cattivo”. Ma andiamo con ordine.
L’Rt della discordia
Questa settimana è esploso il caso dell’indice RT, sbagliato, della regione Lombardia. Questo grave errore, che ha portato la Lombardia ad avere un numero più alto di contagiati rispetto a quelli reali, ha bloccato in zona rossa la regione per una settimana in più del dovuto. Ovviamente il danno economico è stato effettivamente elevato per la regione guidata dalla Lega. Subito, il Presidente della regione Attilio Fontana, ha accusato il Ministro della salute Speranza e l’Istituto Superiore di Sanità (l’ISS) di aver sbagliato nel conteggio dei dati dell’indice Rt. A questa accusa, il Presidente della regione, ha subito avanzato una richiesta economica per coprire tutti i danni economici che, a suo avviso, il Governo centrale avrebbe causato.
La risposta del ministro della salute Speranza e dell’ISS, però, non si è fatta attendere. Il Ministro e l’Istituto si sono prontamente difesi affermando che sono le regioni ad inviare i dati dell’indice Rt, ossia l’indice di diffusione del contagio tra i sintomatici, e che la scelta del governo è dovuta a un errore della regione Lombardia. Ad aumentare i sospetti che ciò che è stato riportato dal Ministro e dai vertici dell’ISS sia vero, sono le email, rese pubbliche, tra la regione Lombardia e l’ISS. In queste, si legge apertamente che già il 9 gennaio, prima dell’Ordinanza del Ministro Speranza, l’ISS avesse informato la Regione che qualcosa, nel conteggio dei dati dell’indice Rt, non andasse e che era fortemente consigliabile rivedere questo conteggio. Infatti, sempre tra le email pubblicate: dopo l’avviso dell’ISS sopra citato è arrivata, qualche giorno dopo, un ulteriore email dalla Regione dove si chiedeva la modifica dell’Indice alla luce di nuovo conteggio
Ma la colpa, quindi, di chi è?
Le email pubblicate dall’ISS parlano chiaro. Sembra proprio che il “brutto” e “cattivo” governo regionale a guida Fontana ne abbiano combinata un’altra delle sue.
Manuel Ferrara
155 morti nel Darfur a seguito di scontri inter-etnici, il governo centrale invia l’esercito
Almeno 155 persone sono morte tra il 16 e il 20 gennaio nel Darfur, regione occidentale del Sudan, a seguito di violenti scontri inter-etnici. Gli attacchi si sono sviluppati attorno a due assi principali: a Saaduun, dove 55 persone sono morte a seguito dello scontro tra la tribù di Fallata e quella di Rizeigat; e ad al-Geneina, che ha visto cadere oltre 100 uomini per via di reciproche aggressioni tra un gruppo di nomadi arabi e la tribù dei Masalit, non-arabi. Il tutto parrebbe slegato dal recentissimo (e storico) accordo di pace e nessun gruppo presente a Juba (sede dell’incontro) ha partecipato agli scontri.
Il Sudan sta vivendo un interessante processo di transizione che potrebbe reindirizzarlo nel medio-lungo periodo verso una fase democratica. La prova del nove è attesa per il 2022, quando l’attuale governo tecnico transizionale lascerà il posto a seguito di una decisiva tornata elettorale. Se Khartoum assisterà a delle elezioni free and fair, la strada sarà tracciata. Ma intanto l’attuale governo sta attirando plausi sempre più convinti dalla comunità internazionale per il percorso intrapreso. Gran parte della stabilità ottenuta deriva proprio dall’Accordo di Pace con il SRF (Sudan Revolutionary Front), unione di vari gruppi ribelli (Darfur, Kordofan, Nilo Azzurro), firmato cinque mesi fa a Juba, capitale del Sud Sudan.
L’eredità del conflitto
Il Darfur ha vissuto uno spaventoso decennio di fuoco tra il 2003 e il 2010, quando il governo decise di inviare i famigerati Janjawiid (“demoni a cavallo”) per contrastare l’insurrezione del SRF. Ne seguì qualcosa di molto vicino a un genocidio, finché nel 2010 la tregua di Doha riportò il paese a una specie di normalità. Si trattò di un conflitto di difficile concettualizzazione, perché separato dalla contemporanea guerra tra Sudan e Sud Sudan, caratterizzata invece da chiare dinamiche religiose. Nel Darfur, entrambe le parti erano musulmane. Le ragioni erano più etnico-politiche ed economiche: secoli di sottosviluppo e mancanza di progettualità del governo centrale per una periferia desertica e complicata. Ora, dopo anni di pace, il ritiro dell’operazione ONU di peacekeeping (UNAMID), avvenuta appena due settimane fa, rischia di riaprire degli spazi di conflitto. Al momento, i vari gruppi firmatari non sembrano coinvolti negli scontri. Ma il fatto stesso che questi scontri siano avvenuti, dimostrano come i tempi possano cambiare rapidamente.
Matteo Suardi
Torna il terrore a Baghdad
L’Iraq rischia di ripiombare nell’incubo terrorismo. Giovedì scorso due kamikaze hanno colpito la capitale, uccidendo almeno 32 persone e ferito centinaia di persone. Secondo le ricostruzioni delle autorità, gli attacchi sarebbero avvenuti nella zona del mercato aperto degli abiti, a piazza Tayaran (non lontana da piazza Tahrir), con i terroristi che si sarebbero mimetizzati tra la folla. Le testimonianze descrivono scene apocalittiche; alcuni video avrebbero filmato il momento del secondo attacco, con il kamikaze che si fa esplodere dopo essere stato fermato dalla polizia. Il duplice attentato sono avvenuti vicino a piazza Tahrir, teatro di proteste negli ultimi mesi per la crisi economica che attanaglia il Paese, e luogo di diversi attacchi dell’Isis durante la guerra tra il 2014 e il 2017.
Il ritorno del califfato
Quest’ultimo attacco ha gettato sconcerto nel governo iracheno: dopo la sconfitta del califfato, nella capitale erano diminuite e poi cessate le azioni dell’Isis (ultimo attentato nel 2019), illudendo la popolazione che il peggio fosse passato. Gli attacchi di giovedì hanno minato questo periodo di precaria pace, con Daesh che dopo qualche giorno ha rivendicato l’attacco, confermando i sospetti della sicurezza interna irachena. Il duplice attentato avviene in un momento delicato per il Paese e la regione: le tensioni tra Stati Uniti e Iran non è diminuita, nonostante il cambio di amministrazione a Washington, con Teheran che, attraverso le milizie filoiraniane, si sta infiltrando negli apparati di dell’esercito iracheno non arretrando nelle sue mire espansionistiche. A questo si aggiunge il rinvio delle elezioni nel Paese (previste a giugno ma posticipate a ottobre) e al ritiro delle truppe americane deciso durante il mandato Trump (rimangono 2.500 soldati per l’addestramento dell’esercito iracheno).
I vertici del governo locale, e la popolazione sono preoccupati: l’Isis, nonostante la sconfitta di tre anni fa, non si è disunito ma ha approfittato dell’instabilità politica e della crisi sanitaria in corso per riorganizzare le cellule ancora attive tra Siria e Iraq. La scelta del ritiro statunitense rischia di essere un nuovo assist per il gruppo terroristico e getta in allarme il Paese , che non ha dimenticato che la stessa scelta fatta da Obama nel 2008 permise l’ascesa dei Daesh. Gli attacchi di giovedì da parte dei jihadisti appaiono come un macabro avvertimento.
Manuel Morgante