Artemisia Gentilischi, grande pittrice del tardo rinascimento, ottenne la dovuta fama solo all’inizio del secolo scorso.
Donna che non solo intraprese un lavoro prettamente maschile ma che seppe farlo nel migliore dei modi, fu la prima ad ottenere, nel campo della pittura, diritti analoghi a quelli dei suoi colleghi uomini.
Figlia del famoso artista Orazio Gentileschi, ebbe la fortuna di crescere in una famiglia agiata, con un padre che assecondò le sue doti.
Nacque a Roma nel 1593, città simbolo della cosiddetta “Controriforma”.
Proprio nella sua città natale, avvenne l’episodio che cambiò per sempre la vita dell’artista.
Infatti, Orazio Gentileschi, orgoglioso della propensione per l’abilità pittorica della figlia, la allocò sotto la guida di Agostino Tassi, pittore talentuoso dal carattere particolarmente “irruento”. Carattere che si dimostrò tale nel 1611, quando il pittore approfittando dell’assenza del padre, violentò Artemisia. Questo tragico evento influenzò in modo drammatico la vita e l’iter artistico della Gentileschi, mettendo in discussione la sua intera persona.
Dopo aver violentato la ragazza, Tassi promise di sposarla, così da “rimediare” al disonore arrecato. All’epoca infatti, vi era la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale qualora fosse stato seguito dal cosiddetto «matrimonio riparatore».
Possibilità che in Italia rimase attuabile fino al 1981.
Artemisia accettò l’offerta sperando di poter “correre ai ripari”, fino a quando seppe, che il pittore era già coniugato.
Dinnanzi a questa situazione, Orazio Gentileschi, inviò una querela al papa Paolo V, informandolo dell’accaduto e dando inizio ad una vicenda processuale denigrante e tumultuosa.
Durante lo svolgimento di quest’ultima, Artemisia si trovò davanti a un’ennesima sfida, essendo obbligata secondo la prassi, a numerose visite ginecologiche umilianti e a interrogatori posti sotto tortura.
Costantemente spinta a ritrattare la versione dei fatti, ella non ritrattò, uscendo vincitrice dal processo che l’aveva tanto logorata.
Quanto al Tassi, egli fu condannato a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma; ma nella pratica nulla di tutto ciò avvenne.
La credibilità di Artemisia invece fu completamente minata, in quanto in molti credevano alla storia del suo stupratore fino al punto di tramutarla in oggetto di scherno in sonetti licenziosi. Nulla di nuovo dunque.
In seguito, ella convolò a nozze con un pittore di modesta levatura che poté assicurarle un lieve riscatto sociale.
Così Artemisia si trasferì a Firenze dove conobbe un lusinghiero successo soprattutto grazie alla politica illuminata di Cosimo II e all’incontro con grandi artisti del calibro di Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, che la introdusse nella élite fiorentina procurandole numerose commissioni e creando un vero e proprio sodalizio artistico.
Il culmine del suo riconoscimento pittorico avvenne infatti nel 1616, quando fu ammessa alla Accademia del Disegno di Firenze, diventando la prima donna a godere di questo privilegio. Durante questo soggiorno Artemisia adottò il cognome di “Lomi”, per emanciparsi dalla figura paterna.
Dopo quattro gravidanze in un matrimonio senza amore, una serie di debiti gravosi contratti dal marito e lo scandalo dovuto alla scoperta della relazione con Francesco Maria Maringhi, Artemisia decise di tornare a Roma. Dopo un breve soggiorno, nel 1621 seguì il padre a Genova, luogo dove conobbe gli artisti Van Dick e Rubens.
L’orizzonte di Artemisia continuò così ad espandersi trasferendosi poi da Roma a Napoli, centro culturalmente acceso dove fece la conoscenza di personalità come Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Giovan Battista Marino. Ella si spinse anche oltre oceano, recandosi a Londra nel 1638 presso la corte di Carlo I. Dopo questa breve parentesi, tornò a vivere a Napoli, dove morì nel 1653.
Considerata da molti una delle prime femministe della storia, la vita di questa donna si è dipanata in un periodo storico in cui il genere femminile aveva un ruolo esclusivamente “subalterno” e in cui il mondo della pittura era considerato appannaggio esclusivamente maschile. Nonostante i numerosi ostacoli che la vita le pose davanti, tra i quali i pregiudizi morali e sociali dei suoi colleghi e degli uomini e donne del suo tempo, ella seppe far fruttare il suo talento, persistendo.
Una donna che fece dell’arte il suo strumento di libertà e di emancipazione che le permise di viaggiare per le corti d’ Europa come qualsiasi altro artista di sesso maschile. Nonostante i riconoscimenti che ottenne in vita, la sua figura rimase comunque inizialmente nell’oblio, fino al punto di non essere menzionata nei libri di storia dell’arte. La sua riscoperta è dovuta a Roberto Longhi, che nei primi del Novecento pubblicò uno studio su Artemisia e suo padre, dandole il riconoscimento artistico che tanto meritava.