Il carcere di Mortana sta per chiudere. Quasi tutti i detenuti sono stati trasferiti, così come la direttrice e le guardie. Un contrordine, però, costringe un gruppo di carcerati a rimanere nella struttura in previsione di una sistemazione diversa, sotto osservazione di alcuni secondini guidati dall’anziano Gaetano Gargiulo (interpretato da Toni Servillo). Ha inizio così un periodo di attesa, in cui le vite dei due gruppi si amalgamano, unite da un unico sentimento: quello di precarietà.
TEMPO
Il tempo scandisce l’attesa, qualunque essa sia. Con un richiamo evidente a Samuel Beckett e al concetto di immobilità del tempo, Leonardo di Costanzo fa muovere i personaggi all’interno di un luogo circoscritto e claustrofobico. In un ambiente chiuso e asfissiante come quello delle mura di un carcere ottocentesco, l’aria che si respira è ferma. Ariaferma, scritto tutto unito. Una scelta non casuale, perché lo spazio è compresso, ridotto ai minimi termini. I corpi sono reclusi in un ambiente stretto, forzati a rimanere vicini senza la luce, senza cibo, senza respiro. I colori sono cupi, gli sguardi oltre le sbarre spenti. Non si fanno che ripetere le stesse azioni alienanti. Le porte si aprono, poi si richiudono. Le scarne razioni di cibo vengono consegnate, poi ritirati i resti.
GLI SPAZI
L’esterno non esiste, viene solo presentato nelle prime scene. È buio, senza coordinate spaziali, non è incoraggiante. È un ambiente primitivo. Le guardie vengono presentate come cacciatori che evocano gli episodi personali come se fossero lontani, ormai persi. Invece, la superficie interna è circoscritta da un perimetro ben delineato. Di Costanzo ne riesce a evidenziare i margini attraverso le inquadrature geometriche e precise, quasi come se guardie e detenuti fossero pedine che si muovono su una vecchia scacchiera. O, ancora meglio, come attori che recitano la loro parte in uno spazio teatrale demarcato.
LA DIMENTICANZA
Passato e presente sembrano fondersi in un’unica realtà: quella del carcere. Pochi i riferimenti alla vita precedente dei carcerati, solo qualche cenno vagamente intuito. Il passato viene cancellato, eppure è la zavorra che sono costretti a trascinare. E il destino sembra essere lo stesso, sia per i detenuti che per i secondini.
“È tosta a sta’ in galera, eh?” – chiede Carmine Lagioia, boss della mafia (Silvio Orlando), al rigido ispettore Gargiulo. Nello scambio di frasi, in un dialogo essenziale, si mette in evidenza la fragilità della linea di demarcazione fra i due ruoli. È proprio Lagioia a ricoprire un ruolo determinante nello svolgimento della trama. È la figura su cui poggiano le riflessioni del film, la miccia che scatena il disordine emotivo: lo spettatore attende- anche lui- che accada qualcosa a ogni suo movimento. Ogni sua azione genera una pressione subdola, silenziosa.
CAPIRE L’ALTRO
Fondamentale è il dialogo tra Lagioia e Gargiulo mentre fumano una sigaretta. Il detenuto si ferma a osservare un formicaio e, chinandosi, asserisce:
In un documentario ho sentito che non è vero che tutte le formiche lavorano sempre. Ci sta una parte che non fa niente tutta la giornata. E voi, ispettore, se foste formica a quale categoria vi piacerebbe appartenere? Quelle che non fanno niente o quelle che lavorano?
Una sottile riflessione che non manca di evidenziare l’esigenza di capire l’altro e di conoscere la società per convivere senza che la tensione esploda. In effetti la condizione precaria rischia di precipitare da un momento all’altro: ne sono esempi la luce che va via, il cibo che inizia a mancare, gli scioperi che vengono proclamati dai carcerati.
Lo spettatore è lì davanti, che osserva gli sguardi tesi con sospetto, attendendo una progressione e un capovolgimento della monotonia. Abituato alla nota regola narrativa del fucile di Cechov, che se sta appeso un motivo deve esserci, aspetta con impazienza e agitazione la violenza. E quello che ne scaturisce è un esame che, chi osserva, è costretto a farsi. Siamo noi i testimoni silenziosi di una tragedia che sta per avvenire oppure tutto rimarrà imperturbato? E allora, se tutto restasse immobile, chi sarebbe il vero colpevole?