Il Covid19 e l’appello alla paura: analisi della comunicazione sanitaria.
Il modo migliore per influenzare il comportamento delle persone è sempre stato quello di far leva sulla paura. Un sentimento innato a tutti gli animali e che gioca un ruolo tutt’altro che secondario nella sopravvivenza e nell’evoluzione della specie. Anche la comunicazione sanitaria ha fatto perciò tesoro di quanto sia potente la paura come risorsa per influenzare il comportamento degli individui.
Fin da piccoli siamo stati spaventati al fine di farci adottare certi comportamenti o evitarne altri. “Non toccare il fuoco perché se no ti fai male”, “guarda prima di attraversare la strada perché se ti investono potresti morire”, “metti la cintura” eccetera eccetera. Ora che siamo cresciuti cambiano forse le raccomandazioni ma non la sostanza. Ne è un esempio la comunicazione durante questa pandemia di coronavirus. Fin da subito, le autorità hanno cercato di farci cambiare le nostre abitudini attraverso quello che viene chiamato dagli esperti un “appello alla paura”.
Ma ora occorre chiedersi quando un appello alla paura è efficace. In altre parole, quali sono gli ingredienti che permettono a un appello alla paura di farci aggiustare le nostre abitudini?
Per una comunicazione efficace
Innanzitutto, un appello alla paura per essere efficace deve spaventarci, ovvero deve farci comprendere il pericolo a cui siamo esposti. Questo risultato può essere raggiunto con una strategia comunicativa che da una parte enfatizzi la severità del pericolo, ovvero i rischi che corriamo se ci ammaliamo di covid19, e dall’altra la suscettibilità al pericolo, ovvero la probabilità di essere contagiati.
Raggiunto l’obiettivo di far percepire il rischio alla popolazione come reale, una buona comunicazione deve poi concentrarsi sull’efficacia delle misure proposte. Quest’ultima dipende in ultima analisi da due fattori: quanto la popolazione crede che le misure proposte siano utili a minimizzare severità e suscettibilità del pericolo e quanto crede di essere in grado di adottare correttamente tali misure. Per assurdo, potremmo anche chiedere alle persone di non respirare per evitare il contagio. Sarebbe forse facile convincere qualcuno che se non respira non si può ammalare, ma tutto sarebbe vano poiché rimarrebbe il problema che nessuno è in grado di trattenere il fiato per tutto il tempo necessario.
Una comunicazione che miri a modificare il comportamento degli individui deve combinare sia un alto livello di pericolo che una alta efficacia delle misure proposte. Purtroppo, la comunicazione a cui siamo stati soggetti da quando il virus ha cominciato a diffondersi ha spesso mancato entrambi i requisiti.
La comunicazione sul covid19: contraddittoria e confusa
Il pericolo è stato sottostimato da molti e la comunicazione è stata fin da subito contraddittoria. Tutti ricordiamo la fake news del covid “banale influenza” lanciata a inizio contagio anche da esponenti di spicco del mondo scientifico, come la direttrice del laboratorio di Virologia dell’Ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo. O ancora quando questa estate il Professor Alberto Zangrillo affermò che il virus fosse “clinicamente morto”, una dichiarazione imprudente smentita dai fatti.
Soprattutto nella prima fase del contagio, questi errori sono costati caro. Questa comunicazione contraddittoria non ha permesso alle persone di afferrare la portata del pericolo e, di conseguenza, la gente ha continuato a comportarsi come se nulla fosse, tra feste e aperitivi.
Il rischio di innescare meccanismi di autodifesa
Ma è soprattutto riguardo alle misure proposte che il non saperne comunicare adeguatamente l’efficacia ha causato più danni. Infatti, se questa viene fraintesa, è molto probabile che, invece di adottare le misure per il controllo del pericolo, le persone preferiscano controllare la propria paura. In particolare, se il livello di efficacia percepito è basso, le persone sono portate ad adottare meccanismi autodifensivi: negazione (“il virus non esiste”), minimizzazione (“il virus non è pericoloso come dicono”), rifiuto (“non capiterà a me”) e rimozione (“non ci devo pensare”).
Questo è proprio quanto è successo.
L’iniziale confusione sull’utilità delle mascherine e la mancanza di misure che consentano di rispettare il distanziamento sociale in molti luoghi pubblici come bar, ristoranti, negozi e mezzi di trasporto hanno spinto molti cittadini a preferire il controllo della paura al controllo del pericolo.
Solo in questa prospettiva è possibile fornire un’analisi del manifestarsi di movimenti no-mask che vada al di là del superficiale “sono solo matti”.