Nelle ultime settimane, dopo le parole del sempreverde Elon Musk che ha promesso di vendere buona parte delle sue proprietà per reinvestire quanto ricavato così da costruire la prima città su Marte, per un attimo la mente ha vagheggiato tra gli schemi della via lattea e non tra le problematiche quotidiane legate alla pandemia.
Eppure in questo 2020, che tutti siamo d’accordo essere un anno da dimenticare in favore di un 2021 venturo carico di speranze, è molto più concreta e vicina delle pianure rosse di Marte la montagna di soldi del Recovery Fund.
Un progetto monstre, salutato la scorsa estate come un nuovo rilancio per l’Europa tutta, ma presto diventato ennesimo terreno di scontro. Da una parte i paesi seri, che nel progetto europeo ci credono (o quantomeno fingono di farlo); dall’altra quelli che a Bruxelles associano l’idea di un bancomat senza condizioni. Questi ultimi sono quelli con le capitali a Budapest e Varsavia per intenderci.
In questo clima tutt’altro che disteso e con un numero di contagi altalenante, mesi e mesi di pandemia e misure di emergenza ci hanno restituito, tra le varie cose, una cartella clinica sempre più chiara sullo stato di salute dell’Unione Europea.
Referto: embrioni patogeni esistenti talvolta palesi e talaltra meno. Alcuni evidenti come nei casi di Polonia e Ungheria appunto, altri sotto traccia ma non meno pericolosi e presenti sotto forma di sovranismi.
In questo clima di fratture e ricomposizioni frenetiche, più che mai si è resa evidente la necessità di una coesione vera. Una integrazione genuina cioè tra i Paesi che compongono quella che oggi chiamiamo Unione Europea.
Ma Stati Uniti d’Europa non significa Stati Uniti d’America
La profonda somiglianza sintattica può indurre in errore. Attenzione però: nessuno deve pensare ad un copia-incolla di sistemi e forme di governo. Montesquieu per primo insegna nel suo Esprit des lois (1748) che ad ogni territorio, ad ogni cultura e costumi corrisponde una diversa concezione del diritto che si traduce in forme e schemi sempre diversi che trovano la loro ragione fondante e di conseguenza la loro consacrazione, in una società che è culturalmente pronta e predisposta ad accoglierli. Nulla da fare quindi con sistemi alieni presi e dall’alto calati come atto de imperio. La storia insegna che non funzionano e presto, col tramontare del potere che li ha imposti, sono destinati ad essere rigettati per tornare presto allo status quo ante.
Un paio di guerre in Medio-Oriente ed un passato coloniale tutt’altro che da apprezzare dell’Occidente ci dimostrano proprio questo.
Dire Stati Uniti d’Europa non significa quindi attribuire a questo termine così fuorviante un connotato maldestramente simile a quello statunitense. Niente Casa Bianca (o blu, nel nostro caso?) in una improbabile Washington europea e nemmeno un presidente plenipotenziario (sulle orme di quello nord-americano appunto) che conosca davvero pochi limiti.
Noi europei, noi cittadini d’Europa (come recitava l’abortito progetto di Costituzione europea del 2004), non siamo figli di un’esperienza coloniale drammatica né di un destino neanche lontanamente equiparabile a quello giovane del Nord-America. Siamo figli di una cultura millenaria intrisa di momenti tormentati certo (da ultime le due guerre mondiali), ma anche di profondi valori culturali condivisi e nel tempo sviluppati, importati ed esportati, modificati e digeriti, copiati e quindi rimodellati o cassati.
Salvaguardare le differenze
Se è vero che il motto europeo è “Uniti nella diversità”, la nuova impalcatura europea non dovrebbe dimenticarlo. Dire Stati Uniti d’Europa non dovrebbe significare infatti una cieca integrazione. Nemmeno forzare l’approdo ad una lingua unica. Ancora una volta: non esiste e non deve esistere un’equazione USA = USE.
Piuttosto si dovrebbe tendere ad un rafforzamento della Commissione passando anche per una sua maggior legittimazione. Un primo passo potrebbe essere l’elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti d’Europa. Una donna, un uomo, che in virtù del voto popolare avrebbe anche un maggior contatto con i cittadini europei ed una sicura identificazione. Un ulteriore step potrebbe essere l’allargamento delle competenze del Parlamento europeo, unico organo ad oggi direttamente eletto dai cittadini eppure non particolarmente investito di potere decisionale.
Ma prima di tutto, passaggio imprescindibile ad ogni grande cambiamento, deve precedere un retroterra culturale maturo. Un’identità europea, un sentimento comune di essere tutti cittadini della medesima entità. Non a caso a questo lavora da sempre il programma Erasmus che di anno in anno permette a migliaia di studenti di visitare altri paesi europei e incontrare le altre culture e tradizioni così diverse eppure così simili rispetto al resto del mondo. Uniti ma diversi appunto.
E’ proprio sulla base di questi valori comuni che bisogna rinascere dandosi un vestito nuovo: un sistema che rafforzi un’unione di valori, ad oggi, troppo facilmente bypassabile.
In che senso?
Il Covid ha messo in luce tutte le fragilità del sistema europeo. Non che queste non fossero già emerse in precedenza ma nell’ultimo anno, più che mai, sono apparse con forza e nitidezza.
Dalla mancata coesione e solidarietà dei primi giorni di marzo passando per Consigli europei inconcludenti e veti-ricatto per finire con decreti nazionali fuori dagli argini della democrazia e spaventosamente pendenti verso l’autoritarismo. La pandemia ha messo in mostra tutta la fragilità di un’Unione Europea consapevole dei propri valori ma incapace di pretenderne il rispetto.
L’impalcatura europea uscita dai Trattati di Lisbona è infatti una realtà ibrida a metà tra il voler essere ed il non poter esserlo per volontà degli stessi paesi membri. Una creatura amorfa quindi costruita per essere uno strumento di integrazione certo ma privata talvolta degli strumenti per migliorarsi. Un corpo senza braccia. Se oggi l’Unione Europea ha fatto molti progressi rispetto ai trattati di Roma del 1957 lo dobbiamo solo in parte alla volontà politica. Un ruolo importante ha avuto piuttosto la giurisprudenza della Corte di Giustizia che con varie sentenze ha allargato le maglie di competenze della creatura europea.
Ma non ancora abbastanza. Laddove la legge non parla il terreno è fertile per l’azione creatrice dei giudici. Ma laddove le norme dei trattati ci sono e parlano pure chiaro, questi escamotage creativi sono stroncati sul nascere.
Che c’entra col Covid? Che c’entra con l’assunto per cui l’Unione è debole e bypassabile? C’entra perché lo scivolamento pericoloso sulla china dell’autoritarismo da parte di paesi membri quali la Polonia e l’Ungheria, evidente da tempo ma rafforzatosi nell’ultimo anno con la scusa della pandemia, ha subìto un’accelerazione. E l’Unione Europea non ha potuto fare nulla per impedirlo ingabbiata in trattati che prevedono meccanismi di espulsione tanto chiari quanto impraticabili.
Impraticabili, cioè?
Il punto critico sta nell’unanimità troppo spesso presente nei trattati. Essa nasce come esigenza del tutto condivisibile e connaturata all’essenza stessa dell’Unione: un soggetto nuovo, giuridicamente difficile da qualificare nelle forme tipiche conosciute, ma di sicuro non un corpo unico e inscindibile a cui i singoli Stati hanno affidato totalmente la propria sovranità. Quella stessa sovranità che rimane in capo agli Stati fa sì che l’unanimità sia l’unico strumento che davvero la garantisce: se un paese membro è contrario ad un provvedimento non sarà costretto a digerirlo perché la maggioranza ha votato favorevolmente. A onor del vero, l’unanimità non è presente in tutte le votazioni dell’unione ed è anzi rimasta come sentinella ultima per le questioni più delicate.
Tra queste, il meccanismo di progressiva espulsione di un Paese dall’UE.
E’ chiaro però che se un meccanismo di espulsione serve, per natura e ragion d’essere, ad espellere, allo stesso tempo questo implica una situazione patologica da estirpare. Parlando con riferimento allo stato delle cose: se uno Stato membro compie chiare infrazioni ai trattati (e nel caso di Ungheria e Polonia ai valori fondanti dell’Unione di cui all’articolo 2 TUE tra cui il rispetto dello Stato di diritto) qual è l’efficacia di uno strumento che può essere superato da un singolo voto contrario, magari del paese “complice” di turno? Alcuna appunto ed il sodalizio tra Polonia e Ungheria fa sì che se la procedura iniziasse nei confronti di uno basterebbe l’altro a bloccarla. E così via ad ogni tentativo, nei secoli dei secoli, amen.
Ed ecco la ragione per cui davanti a due paesi che ormai da anni alterano l’equilibrio tra i poteri accentrandoli verso il governo, perseguitando le opposizioni e rosicando diritti ai propri cittadini (vedi la crociata contro la comunità LGBTQ+), Bruxelles deve assistere impassibile e impotente.
Perché l‘Unione Europea non basta e c’è necessità di una maggior coesione
Sia chiaro: quanto detto nelle righe precedenti non è un invito alla non tolleranza né allo scontro frontale con quei paesi, più volte citati, che in Europa fanno il bello e cattivo tempo. Ungheresi e polacchi non devono subire le conseguenze dei loro leader. Allo stesso tempo l’Unione (nell’interesse dei cittadini europei) non deve lasciare troppo spazio a ricatti – come quello recente sul punto dello Stato di diritto nel Recovery Fund – o finirà per essere un soggetto debole, superabile e ad uso e consumo di chi alza di più la voce. L’Europa è infatti altro e gli stessi trattati a più riprese esprimono inclusione e non divisione.
Però – perché c’è un però – serve un punto di equilibrio e come nel più elementare dei sistemi esistono regole e strumenti utili a farle rispettare. Quindi, se è vero che nessuno costringe nessuno a entrare a far parte dell’UE – e nella storia l’ingresso, così come l’uscita, vedi Brexit, sono avvenuti per spontanea volontà -, allo stesso tempo è un dovere andare tutti nella stessa direzione.
Gli Stati Uniti d’Europa, in questo senso, rappresenterebbero il passo ulteriore verso un’Unione più forte anche nello scenario globale e in grado quindi di dialogare alla pari con le altre potenze. Un’Europa con più peso contrattuale perché espressione di economie forti e di democrazie solide.
Certo nulla va forzato, né accelerato e ogni cambiamento deve venire da sé: dal basso e non dall’alto. La pandemia però, forse un giorno lo diranno i libri di storia, probabilmente ha già accelerato questa transizione.