Le proteste pro-Palestina non si fermano. Anzi, crescono giorno dopo giorno in intensità e volume a pari passo con le gli sviluppi in Medio Oriente. In prima linea, ci sono gli studenti che, da fine aprile 2024, occupano alcune aule ed edifici universitari come forma di protesta.
Dagli USA all’Europa al Medio Oriente, sono centinaia gli atenei interessati. Proteste pacifiche, atte a sensibilizzare alla questione palestinese, ma che spesso terminano con violente reazioni da parte della polizia.
Le radici delle proteste
L’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, movimento nazionalista palestinese che dal 2007 amministra il territorio di Gaza, ha segnato simbolicamente l’inizio di una nuova guerra fra Israele e Palestina.
Tuttavia, le radici dell’astio fra i due popoli sono molto più antiche e dobbiamo andare indietro di almeno un secolo per comprenderle. Nel 1897, infatti, dopo l’inasprirsi dell’antisemitismo in Europa, il sionismo diventa movimento politico. Il sionismo è l’idea secondo cui il popolo ebraico sia destinato a ritornare a vivere in Palestina. Alla base di questa convinzione sta il fatto che nel I secolo a.C. questo territorio era abitato dal popolo ebraico, che però fu costretto ad emigrare (diaspora ebraica). In seguito, intorno al VII secolo d.C., questa terra venne conquistata dagli arabi.
Il conflitto nasce, dunque, da una questione, solo in parte, religiosa. Gli israeliani reclamano il territorio palestinese (in particolare Gerusalemme) come proprio perché culla del popolo ebraico; mentre i palestinesi si rifiutano di lasciarlo perché sostengono di essere arrivati lì per primi.
E allora come risolvere le ostilità?
Ovviamente sarebbe impensabile sfrattare l’intero popolo palestinese dalle proprie case, dato che solo gli abitanti di Gaza sono circa 2 milioni. Per questo, Israele sembra aver trovato una via più rapida. Dal 7 ottobre 2023, infatti, il premier israeliano Benyamin Netanyahou bombarda senza sosta la striscia di Gaza. Solo i primi 6 giorni di guerra sono state sganciate 6000 bombe contro Hamas.
Tuttavia, grazie ai social media, si è scoperto che in questi mesi Hamas non è stato l’unico target di queste bombe, ma che ad essere colpiti sono stati perlopiù i civili. Così gli orrori della guerra hanno fatto il giro del mondo: immagini di bambini mutilati, video di persone che cercano disperatamente i propri cari sotto le macerie e visi scarniti per la fame.
Ad oggi i morti sulla Striscia di Gaza sono oltre 35 000 persone (tra cui 26 000 bambini uccisi o feriti). Dopo tutte le notizie terribili ingurgitate per mesi, il pesante attacco a Rafah – descritto come “un tragico incidente” dal premier israeliano – è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Tuttavia, ancor prima dell’ultima strage di civili, gli studenti della Columbia (università privata a New York) avevano già deciso di prendere posizione occupando uno stabilimento del proprio ateneo. Questa iniziativa ha lanciato un effetto boomerang in tutto il mondo.
Cosa chiedono gli studenti?
Le rivendicazioni da parte degli studenti sono svariate. La più importante è sicuramente la fine dell’occupazione della Palestina.
Ma per fare ciò, chiedono alle proprie università di cessare ogni relazione accademica e commerciale con le istituzioni, le organizzazioni e le aziende che non condannano il conflitto, ma che anzi lo sostengono (in modo diretto o indiretto). L’antropologa israeliana Maya Wind sostiene che “è nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione”. Infatti, nel suo libro Towers of Ivory and Steel spiega che le università israeliane contribuiscono all’occupazione dei territori palestinesi, offrendo strutture all’armata israeliana; nonché sviluppando nuove tecnologie militari per il Paese.
Per finire, un’altra rivendicazione essenziale è il boicottaggio delle marche sioniste. Nell’occhio del ciclone le marche: Mc Donald, Coca Cola, Starbucks, Oreo, Adidas, KFC, Nestle, Danone, Fanta, MAC, Fuzetea, Lipton, Lidl…
Perché protestare in questo modo?
Nonostante le occupazioni a sostegno della Palestina abbiano suscitato tante reazioni positive, non sono mancate le critiche. Alcuni detrattori ritengono sia meglio astenersi da questioni considerate così “delicate” e lontane da noi, condannando il comportamento degli studenti e additandoli come ignoranti, nullafacenti e antisemiti.
Tuttavia, questo movimento così esteso e massiccio non si può riassumere in “una semplice moda”. Al contrario, gli attivisti sembrano conoscere bene i motivi per i quali stanno lottando; e le loro rivendicazioni appaiono chiare, come chiara è la loro volontà di non lasciare i campus universitari fino a che queste non saranno soddisfatte.
Questi luoghi di conoscenza hanno da sempre incentivato la libertà di espressione e gli scambi pacifici. Ma sono stati anche luoghi di protesta e di dissenso. Non dimentichiamo che i movimenti del ‘68 sono nati in America, quando gli studenti dell’Università di Berkeley chiedevano, fra le altre cose, la fine della guerra in Vietnam.
Le università, dunque, come ci insegna il passato, possono portare a delle vere e proprie rivoluzioni. Il coraggio, l’impegno e l’interesse dei giovani per questa causa (e più in generale per la difesa dei diritti umani) dovrebbe essere premiato, e non sminuito. Additati spesso come menefreghisti, questi attivisti ci insegnano il valore della solidarietà e della lotta contro un potere che non ci rappresenta.