venerdì, 20 Dicembre 2024

Rohingya: il popolo dimenticato che mette in crisi il Nobel per la pace

Nel novembre 2019 il Gambia ha denunciato il Myanmar alla corte internazionale di giustizia per aver violato la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Le vittime di questa atrocità sono i Rohingya. Questo popolo è stato definito il “popolo meno voluto al mondo” e, secondo l’Onu, è uno dei popoli più perseguitati. Un’accusa che pesa enormemente sulle spalle del Consigliere di Stato della Myanmar: Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 per il suo impegno contro la dittatura militare nel suo paese, insignita anche del premio Sakharov nel 2013.

Chi sono i Rohingya e cosa sta succedendo loro

I Rohingya sono un’etnia di religione musulmana che vive in Myanmar, nello Stato costiero di Rakhine, al confine con il Bangladesh.

Il Myanmar e lo Stato di Rakhine in rosso
Il Myanmar e lo Stato di Rakhine in rosso (Fonte: Wikipedia – NordNordWest)

La loro etnia, però, non è tra le 135 riconosciute dal governo birmano, per il quale i Rohingya semplicemente non esistono. Il governo li ritiene discendenti degli immigrati illegali arrivati dal Bangladesh, giunti principalmente durante il periodo coloniale britannico, e li chiama bengalesi. Per questo motivo, secondo la legge sulla cittadinanza del 1982, non hanno diritto alla cittadinanza, rendendo queste persone di fatto apolidi.

Questa scelta preclude loro molti diritti come l’accesso alla sanità, allo studio e la possibilità di votare e partecipare alla vita politica del loro paese. Anche i loro spostamenti sono sottoposti a severe restrizioni che gli impongono di chiedere un permesso per lasciare i loro villaggi. Questo rende ancora più difficile trovare lavori e cibo che permettano di mantenere le famiglie, come riportato anche da Amnesty International in un rapporto sulla situazione dei Rohingya del 2004. La situazione aggravata dal fatto che non gli sono concessi diritto di possedere una terra o accessi a terreni agricoli da coltivare e molti terreni sono stati arbitrariamente confiscati.

Le restrizioni imposte dal governo hanno colpito anche la possibilità di creare una famiglia. Prima di tutto perché è richiesto un permesso per sposarsi, che spesso richiede un ingente esborso di denaro e tempi molto lunghi. In secondo luogo, lo Stato interviene con forme di controllo delle nascite. In passato i Rohingya sono stati obbligati a non avere più di due figli, oggi, con una legge approvata nel 2015, è richiesto che tra le nascite intercorrano almeno 36 mesi.

Gli attacchi militari

A tutte queste significative limitazioni si sono aggiunta una forte violenza. Del 2017 l’esercito birmano, il Tatmadaw, ha portato avanti una serie di operazioni militari contro questa popolazione. Si è trattato di vere e proprie operazioni di pulizia etnica molto cruente che hanno portato alla morte, stupri e torture di migliaia di civili. Nel corso di queste persecuzioni molti villaggi Rohingya sono stati incendiati e le loro proprietà saccheggiate.

La fuga

Viste le condizioni di vita estreme a cui sono sottoposti molti Rohingya han cercato di lasciare il paese, ma la situazione è precipitata del 2017 in seguito alle offensive militari.

Secondo l’UNHCR, ormai più di un milione di Rohingya han lasciato lo stato birmano a partire dagli anni novanta. Nell’agosto 2017 è iniziata l’ultima ondata di emigrazioni che ha portato più di 700 000 persone a cercare asilo in Bangladesh. La maggior parte di queste persone sono donne e bambini e per superare il confine devono affrontare viaggio duri e pericolosi.

Questo ha posto sotto enormi pressioni il sistema bengalese e i campi di accoglienza per i rifugiati. Questi ormai sono incredibilmente sovrapopolati, con relativi problemi di igiene, sicurezza alimentare e sicurezza personale. A peggiorare la situazione il fatto che questa sia una zona esposta periodicamente ai monsoni che creano maggiori rischi.

In Bangladesh, secondo l’Unicef, quasi un mezzo milione di bambini sono costretti a vivere in queste condizioni. Intanto in Myanmar più di trencentomila quelli che necessitano assistenza.

Attualmente il campo profughi di Kutupalong, uno dei campi in Bangladesh dove vengono accolti i Rohingya, è il più grande del mondo, con circa 600 000 rfugiati.

Rohingya dimenticati anche dal premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kye

Aung San Suu Kyi è stata a lungo attivista per i diritti umani in Myanmar in opposizione alla dittatura militare birmana.

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Aung San Suu Kyi

Madre e padre impegnati polticamente, quest’ultimo fu ucciso quando lei era bambina. Nel 1988 ha fondato la Lega Nazionale per la Democrazia e in seguito fu posta agli arresti domiciliari. Il suo partito ha vinto le elezioni indette nel 1990, ma la dittatura decise di rifiutarle e mantenne il potere. L’anno successivo fu assegnato all’attivista il Nobel per la pace. Gli anni successivi furono segnati da arresti, divieti di lasciare il paese e attentati alla sua vita, fino alla sua liberazione nel 2010. Nel 2013 le venne assegnato anche il premio Sakharov per la libertà di pensiero, un riconoscimento istituito dal Parlamento Europeo per premiare personalità che abbiano dedicato la loro vita alla difesa dei diritti umani e delle libertà.

Il suo partito fu ammesso alle elezioni del 2012 e lei ottenne un seggio, vittoria riconfermata nel 2015 e nel 2016 Aung San Suu Kyi è divenuta Consigliere di Stato del paese per cui ha tanto lottato, una carica simile al primo ministro.

Aung San Suu Kyi e i Rohingya

Quando la vicenda del popolo dimenticato è venuta a galla Aung San Suu Kyi era già Consigliere di Stato ed è stata investita dalle polemiche.

Molti leader e personalità internazionali l’hanno invitata a prendere una posizione chiara sulla vicenda e a intervenire, ma da parte del premio Nobel tutto ciò non è avvenuto. Ha ricevuto esortazioni anche dalla “collega” premio Nobel per la pace, Malala Yousafzai.

Il mancato intervento della leader del Myanmar le è costato critiche e il ritiro di supporto. Diverse onereficenze le sono state ritirate, tra cui il premio Sakharov, sospeso nel 2020, e la cittadinanza onoraria canadese.

Non è tutto come sembra

Fin qui potrebbe risultare semplice prendere una posizione e muovere delle critiche, ma ci sono almeno due aspetti da considerare:

  • La complessità della posizione di Aung San Suu Kyi a guida di questo paese
  • Le relazioni tra le differenti etnie, mai facili e troppo spesso sanguinarie

Myanmar: un paese complesso

Il Myanmar si trova in una situazione complessa e non semplice da gestire per chi lo governa.

Si tratta di un paese che è uscito da poco da decenni di dittatura militare, in cui la libertà era solo un ricordo. In questa situazione bisogna saper far convivere molte etnie e religioni e non è semplice.

Putroppo sembra che la paladina della libertà e della democrazia birmana non sia all’altezza di questo complesso e delicato compito.

Il suo partito, come abbiamo visto, è la Lega Nazionale per la Democrazia, ma la democrazia, almeno per come la intendiamo in Occidente, non può prescindere la tutela dei diritti umani e delle libertà. Questo ha decretato, negli occhi dei paesi occidentali che l’avevano eretta a mito, una caduta della leader.

I rapporti tra le etnie e le differenze religiose

La maggior parte della popolazione in Birmania è pratica la religione buddista, mentre Cristianesimo e Islam sono praticati solo da circa il 4% della popolazione ciascuno. Si sa, le differenze religiose sono state spesso la causa, o il pretesto, per enormi violenze.

Anche differenze religiose tra i Rohingya musulmani e il resto della popolazione hanno un forte peso. Abbiamo già visto a cosa sono sottoposti i membri di questa etnia minoritaria, ma nulla è mai completamente bianco o completamente nero.

I Rohingya, oltre a essere vittime, si sono trasformati anche in carnefici. Secondo Amnesty, l’Esercito di salvezza dei rohingya dell’Arakan (ARSA) si sarebbe reso colpevole di una strage di persone indù. Questo sarebbe accaduto nel 2017, nel mezzo dei tumulti e delle difficoltà create dall’offensiva militare dell’esercito birmano.

Il processo alla Corte Internazionale di Giustizia

Il gambia nel novembre 2019 ha avviato un procedimento alla CIG contro il Myanmar per aver violato la convenzione per la Prevenzione e la Repressione del delitto di genocidio (del 1948). Provocando enorme scalpore perchè si accusava di genocidio il paese guidato da un Nobel per la Pace.

A gennaio 2020 la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato al Myanmar di adottare misure provvisorie per previnire il genocidio della comunità Rohingya. Ovviamente si tratta di una misura d’urgenza, in modo da bloccare eventuali violenze mentre prosegue il procedimento.

Attualmente il procedimento è in fase di stallo a causa della pandemia da Covid-19 che ha portato a richiedere dilazioni per la presentazione della documentazione.

Presto i lavori potrebbero riprendere perchè il 23 ottobre è posta la scadenza per il deposito del Memoriale della repubblica del Gambia e, in seguito, il contro-memoriale del Myanmar.

Andrea Giulia Rossoni
Andrea Giulia Rossoni
Classe 1996, nata nella nebbiosa provincia novarese, laureata a Pavia in scienze politiche, Erasmus a Bamberg. Oggi studio a Torino Relazioni Internazionali, profilo China and Global Studies. Fin da bambina ho sempre la valigia pronta, qualcuno mi chiama vagabonda. Innamorata del sogno europeo, affascinata dall'Asia, ma curiosa di quello che succede in tutto il mondo.

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