Gestione, ma non proprietà. Condivisione, e non possesso. Forse ci voleva qualcuno di più astuto di Marx per comprendere che l’abolizione della proprietà privata è un fine da integralisti, roba da Al Qaida ideologica. Non serve togliere il possesso per abolire la proprietà, basta la gestione. Collettivizzazione ultimata! Che altro ci vuole? E l’artefice si chiama manager, il mago della massimizzazione degli utili.
La società cambia con la stessa velocità con cui io ho appena digitato questa frase, se non di più. Rivoluzione industriale a fine ‘700, un’altra rivoluzione industriale a metà ‘800 e poi l’espansione da brividi. Il suono dei pistoni meccanici, il sudore degli operai trasferitosi dalle campagne che si trovano immediatamente circondati da pile di mattoni e file di macchinari, da un giorno all’altro. Il tempo passa, e neanche te ne accorgi, non esistevi prima di montare i pezzi della Ford T, prima non c’eri e basta. La macchina consuma i secondi, sbuffo dopo sbuffo.
A quei tempi la forza era la prole. Senza soldi, ridotti a condizioni igienico-sanitarie precarie e con il piatto semi vuoto, gli operai facevano figli anche se sapevano di non poterli sfamare, perchè speravano nel futuro. La proprietà conta, è vero, ma è nelle mani del padrone, bisogna destituire il padrone perchè lui possiede i mezzi di produzione, e non riserva un trattamento umano ai propri dipendenti. Il fordismo alla massima potenza.
Ma per fortuna c’erano Marx ed Engels, esisteva una speranza. Un futuro radioso e di pace, di dignità, in cui il povero operaio, e tutti i suoi fratelli in giro per il mondo, potevano avere quello che spettava loro di diritto. Allora nascono i partiti comunisti, in Russia Lenin fonda l’URSS, il biennio rosso in Europa e un’aria di cambiamento imponente.
Aspetta però, c’è aria di nazionalismo, perchè non tutti vedono il futuro allo stesso modo. Ecco che l’Europa si colora di nero, nascono dittature ovunque, ispirate da chi, in Italia, rosso come il sangue in gioventù, aveva cambiato casacca per essere dalla (sua) parte giusta della storia. Poi un altro lo seguì, stesso ardore e stessa forza, e purtroppo per l’Europa, stessa lucida follia. Arriva la seconda guerra mondiale, il mondo esplode.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, fino ai giorni nostri, si avvicenda un’idea predominante. Dal Gatt (che non è gatto in dialetto romagnolo, ma trattasi dell’acronimo di General Agreement on tariffs and trade) che pose le basi per la liberalizzazione del commercio mondiale, fino all’odierna Unione Europea, la parola d’ordine è sempre stata liberismo. Nonostante qualche breve parentesi dirigista, il mondo occidentale, e i paesi in via di sviluppo a seguire, si sono uniformati al paradigma del mercato libero e della liberalizzazione di ogni cosa possibile. Fluida, l’economia deve essere fluida e le tariffe non devono mettere i bastoni fra le ruote. Nessun discorso economico-sociale può prescindere oggi dalle istanze del liberismo e del liberalismo. Diritti individuali e libero mercato, un matrimonio splendido.
Tutti i paesi, indifferentemente dal colore dei governi e dalla situazione specifica della nazione, sono in qualche modo liberisti, anzi, neoliberisti, tutti. Perché il mondo lo è, perché non si può non esserlo. La destra ha incubato il liberismo, la sinistra lo ha craccato e se l’è arraffato a metà prezzo. Nasce la new left, la sinistra della Terza via di Blair e Clinton, che trae ispirazione dall’ondata liberal sguinzagliata dal ’68. Più diritti civili, ma non sempre diritti sociali. Lotta alle disuguaglianze ma non senza aver chiesto prima il parere dei grandi industriali. L’essenziale è essere di bell’aspetto, perché le cose brutte sembrano belle se hai la giacca e ti fai la barba.
La rivoluzione industriale più eclatante, e forse la madre delle rivoluzioni industriali, è la nostra rivoluzione tecnologica, la terza (adesso quarta, o 4.0). Un’esplosione iperbolica di informazioni, velocità, schemi e sistemi. Arrivano i computer, quindi l’informatica avanzata, ora i Big Data. Sono gli stessi connotati umani ad essere rimodellati dal nuovo mondo della tecnica, il cogito ergo machina della cibernetica. Il creatore diviene opera della sua stessa creazione, nemmeno dio poteva fare meglio. “Non abbiamo inventato i computer, è il contrario datemi retta” ci urla Caparezza.
Un attore interessante diventa cruciale a questo punto: la finanza. Con le rivoluzioni industriali si imposero lungo l’asse della storia diversi modelli di capitalismo. Dal capitalismo di proprietà delle grandi famiglie industriali, al capitalismo finanziario odierno delle public company. Il denaro è diventato virtuale, e tutto si muove lungo gli asset di Wall Street. Il buon senso ci dice che tutto quell’insieme di transazioni in rete dovrebbe essere uno strumento alternativo all’economia reale, una compensazione, un surplus, per qualcuno una scommessa. Invece, se sommassimo tutte le operazioni finanziarie mondiali, ci accorgeremmo presto che il volume finanziario globale supera i 1000 trilioni di dollari, 10 volte il Pil mondiale. In pratica, la finanza da sola vale 10 volte l’economia reale, derivati contro monete, 1-0.
In un mondo così finanziarizzato, accade che milioni di aziende in tutto il mondo, soprattutto nel mercato anglosassone, decidano di investire sui mercati finanziari quote consistenti delle proprie azioni, ergo, si quotano in borsa. La deregulation finanziaria degli anni ’80 introdotta da Reagan e dalla Thatcher dà il via libera ad una massiccia liberalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Poco importa se nel 1929 la stessa mancanza di regole, unita al crescente appeal del mercato finanziario, provocarono la più grave crisi economica della storia.
Dopo la crisi del 2008, gran parte dell’establishment finanziario-bancario rimase impunito, e continua tuttora a fare affari indisturbato. In gergo economico esiste un termine: “too big to fail”, che descrive quelle banche che, dopo la crisi del 2008, erano semplicemente troppo grandi per fallire e andavano salvate con ogni mezzo. La Grecia, l’Irlanda e la Spagna ringraziano, i loro contribuenti un po’ meno, i dirigenti di quelle banche un po’ di più.
Per fronteggiare la complessità di questo sistema di transazioni infinite, le aziende si sono adeguate, e hanno abbandonato progressivamente la struttura proprietà-gestione, in favore di un ordine incentrato sulla figura del manager. I fondatori delle aziende, gli stessi discendenti delle famiglie che le possiedono hanno lasciato la gestione e la direzione a nuovi professionisti. I manager, capi senza proprietà delle loro imprese. Infatti, mentre la proprietà rimane nelle mani di un consiglio costituito dall’imprenditore fondatore e dai suoi soci, che si limitano ad approvare il bilancio di fine anno e investire nell’impresa, la direzione e la gestione sono appannaggio del manager.
Sono i manager il vero cuore dell’economia odierna. Lo possiamo chiamare un “capitalismo di gestione” per chi non possiede un’azienda ma ne determina il destino. Soprattutto nel mondo anglosassone, le public company dominano lo scenario economico. Si tratta di imprese dove la proprietà è polverizzata in tantissimi soci, a volte migliaia (in diversi casi gli stessi cittadini) detentori di pacchetti di azioni molto piccoli. Il controllo è nelle mani dei manager che, non essendo vincolati a nessun proprietario forte, hanno ampio campo di azione. Un sistema come quello delle aziende di proprietà sopravvive in Italia, dove la grande maggioranza delle imprese è costituita da piccole-medie imprese di proprietà.
Spesso le aziende guidate dai manager soffrono del disturbo della rincorsa agli utili. Non godendo della proprietà di un’azienda, non avendola fondata, i manager non sentono l’attaccamento ad un’impresa che percepisce invece un imprenditore che, senza niente e senza mezzi, ha costruito dal nulla una realtà. Gli stipendi dei manager sono legati a parametri di redditività, ciò significa che sarà nell’interesse degli stessi portare l’attività al limite. Spesso questa comporta una scarsa visione del futuro in favore di un rapporto morboso con l’utile immediato.
Il manager, il nostro modello. L’uomo o la donna che ce l’ha fatta, la persona di successo che ha scelto di essere quell’uno su mille. Quante volte avremmo sentito le massime dei guru della comunicazione sul “circondarsi di persone di valore”, su quanto faccia schifo lavorare in ufficio tutta la vita, sull’importanza di costruirsi una libertà finanziaria.
Il manager non guarda in faccia a nessuno, lui prevale. Attacca, morde, conquista. Divide tantissimo prima, s’infiltra e vuole emergere. Gli altri sono zavorre, residui di un passato trascorso navigando nella mediocrità. Così, sotto l’ègida del progresso, ci spingono ad essere rivoluzionari del quotidiano. 15 minuti di pausa caffè? Uno spreco! Il relax? Roba da poveri. L’amicizia? Solo con chi se lo merita.
E bisogna graffiare, graffiare fino a perforare, perché chi si accontenta è perduto (e sperduto). Priorità, maledette priorità, bisogna farci attenzione. Non uscire più con quello lì, basta pensieri negativi. La palestra per forza, ma poi bisogna uscire con la camicia. Mangiare è tempo perso, velocizza, divora. Ogni nostra giornata è un metronomo che danza dal cuscino del mattino e batte la sera sulla scrivania. Il tempo? presto ovviamente.
Il capolavoro di questo sogno in cravatta è che gode di una sensatissima linearità logica. Come lo confuti? Lavorare di più ha senso se la mia produttività è ancora bassa. Se i manager sono ricchi, sono sicuramente più bravi, è ovvio! Vince chi è più bravo, più scaltro, più ricco e più fortunato. Vince chi vuole vincere, a costo di perdere se stesso.
Poco importa delle implicazioni etiche. L’etica è il sale dei condannati. Le buonuscite milionarie dei manager? Se le sono guadagnate. Poco importa se in Italia la differenza media tra lo stipendio di un dipendente e quella di un manager è 38 a 1. https://www.corriere.it/economia/aziende/19_luglio_12/stipendi-italia-ceo-guadagna-38-volte-compenso-un-dipendente-12d567f4-a3e6-11e9-a7ad-0c138fd9d483.sht Un manager prende 38 volte lo stipendio di un suo dipendente, avete capito bene.
E se vogliamo proprio disquisire della ricchezza, diamo uno sguardo agli Stati Uniti, patria del liberismo. Un documento degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman della University of California, dal titolo significativo “The Triumph of Injustice” – Il trionfo dell’ingiustizia, ci dice che negli USA, nel 2018, per la prima volta nella storia, i miliardari hanno pagato aliquote più basse dei lavoratori. Cosa significa? I ricchi hanno pagato meno tasse dei poveri, magia. Chi detiene la ricchezza, giustamente, non deve rendere conto al sistema fiscale.
Ma loro creano posti di lavoro, ci diranno, mandano avanti l’economia. Come il manager, il lupo dell’industria, che fiuta il profitto e lo caccia feroce. Si fa aiutare anche dal branco, ma poi si prende tutta la carcassa. Così, tra un utile massimizzato ed un’acquisizione, passano licenziamenti in massa, salari all’osso, uomini senza dignità.
Se il capitalismo fosse un arciere, i manager sarebbero le frecce. Perfetti ad ergersi simboli e altrettanto bravi a macellare il dissenso. I manager non sono cattivi, almeno non tutti. Non sanno (e non hanno interesse a saperlo) di essere perfetti strumenti di distruzione dell’animo umano. Disgrega un uomo non con catene, ma con una stretta di mano. Si può disintegrare semplicemente convincendolo a smettere di interrogarsi. Tutto appare sensato, e deve essere così. Insegui il manager per diventare un manager, ma attento che non scappi troppo. Lui è contento, tu corri e lei corre, noi corriamo e loro corrono, e così corre il fatturato.
L’importante è che non ti accorga mai che al manager non c’arriverai mai, perché stai correndo da solo. Qualcuno ce la fa, e qualcuno ce l’ha fatta, ma per ogni vincitore che si prende la vetta, muoiono tutti quelli rimasti a valle, e manco lo sanno.