venerdì, 20 Dicembre 2024

Sulla loro pelle: uno sguardo sul fenomeno migratorio

Ancora una volta, ancora una nave. 

Questa volta si tratta della SeaWatch3, imbarcazione battente bandiera tedesca che la scorsa settimana ha soccorso un barcone di migranti con a bordo quasi 50 persone. 

E’ così che è ricominciato lo show: la nave arriva, le autorità portuali avvisano il Viminale e questo nega lo sbarco. Un copione ormai da impararsi a memoria come se fosse una procedura standard. 

In questo teatrino – perché questo é dal momento che quello dell’invasione pare più un pretesto che realtà – a rimetterci sono ancora loro, le persone su questa ennesima nave. 

Viene allora spontaneo chiedersi: perché in Italia viviamo la febbre del fenomeno in maniera così elevata? Tanto elevata da ritenere giusto il braccio di ferro con la comunità internazionale, in barba a molteplici convenzioni internazionali, pur di non far sbarcare meno di 50 persone in evidente stato di bisogno?

Nave SeaWatch nel Mediterraneo

Correva l’anno 2015

Seppur non sia esatto far risalire il principio del fenomeno a questa annata, è proprio nell’Aprile del 2015 che si comincia a parlare di “crisi migratoria”. Quella primavera vede l’arrivo via mare di migliaia e migliaia di migranti su imbarcazioni – i cosiddetti barconi – precarie ed evidentemente pericolose per coloro che si trovano a bordo. 

Ne è un esempio la strage del 18 Aprile 2015. La notte a cavallo tra il 17 e il 18, in un incidente dai dettagli poco chiari, un barcone con a bordo centinaia di migranti si ribalta nei pressi di una nave mercantile portoghese. Colpa dei migranti che si sarebbero lanciati tutti verso una parte del natante per farsi notare? Colpa di un’onda alzata dalla King Jacob (la nave portoghese) che avrebbe rovesciato il barcone? Poco importa. Quello che conta è che in quell’occasione perdono la vita tra le 500 e le 700 persone.

Le contromisure

Dal 2015 ad oggi gli occhi della comunità internazionale si sono così puntati in maniera importante sul fenomeno impiegando prima di tutto uomini, mezzi e budget per salvare vite ed evitare ulteriori stragi, e poi cercando di prevedere adeguate tutele giuridiche al fine di arginare il fenomeno. 

E’ solo grazie a questa premessa che si può cogliere il sunto di questi ultimi anni.

Dal punto di vista logistico e tattico si sono susseguite nel tempo le missioni Mare Nostrum (ideata dall’Italia ma poi giudicata troppo costosa e quindi abbandonata), Triton (finanziata dall’UE con un budget di più di 2 Milioni di euro al mese) e infine Themis (l’unica oggi operativa e occupata nei flussi migratori non solo dall’Africa ma anche da Albania, Grecia e Turchia). 

Sul versante giuridico-diplomatico la situazione è molto più complessa dovendosi prendere in considerazione tanto la Convenzione di Dublino, quanto gli accordi Roma-Tripoli sotto il governo Gentiloni, senza dimenticare i finanziamenti a nove cifre da Bruxelles diretti ad Ankara (Turchia) per fermare i flussi migratori dal medio-oriente. 

Meglio dare un’occhiata un accordo per volta

Operazioni di salvataggio di migranti da parte di Nave Espero, nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum, Mar Mediterraneo Meridionale, 29 Aprile 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Convenzione di Dublino 

Il tentativo di riforma alla Convenzione è stato uno dei primi banchi di prova dell’attuale Governo che in tema di immigrazione ha da sempre una politica chiara. Come è andata a finire? Prima di rispondere, forse è meglio capire cosa prevede. 

Tale accordo mira innanzitutto ad evitare l’asylum shopping, fenomeno che si verifica quando un richiedente presenta più richieste d’asilo contemporaneamente a vari stati membri dell’UE così da aumentare le chance di una risposta positiva. Contrastare questo fenomeno significa evitare i richiedenti “in orbita”, ossia quegli individui le cui richieste non vengono esaminate da nessuno Stato membro. 

Ma non è questa la parte più importante – e critica – della Convenzione. Essa prevede infatti che a esaminare la richiesta del migrante debba essere il primo Stato in cui questi è entrato e che gli ha prelevato le impronte. Non solo: qualora questi dovesse abbandonare il Paese di sbarco per trasferirsi in uno nuovo, questo potrà rispedirlo alla nazione da cui è arrivato. 

Queste regole, come appare evidente, possono penalizzare fortemente Stati come Italia, Grecia e Malta che hanno una presenza costiera più massiccia sul Mediterraneo rispetto ad altri Paesi che neanche vi si affacciano. 

Si accennava ad un banco di prova per l’attuale Governo. Perché? Perché la scorsa estate si è aperta la possibilità di una riforma della Convenzione sul punto del criterio del paese di sbarco, per creare invece un sistema di ridistribuzione dei richiedenti asilo, in base al Pil, tra gli Stati dell’Unione Europea. Come è andata a finire? Il Governo (sia Lega che M5S, ma colpisce più la prima) ha votato contro alla redistribuzione automatica mantenendo in vita il regolamento.

Le ragioni alla base di questa scelta appaiono poco comprensibili.

Accordi UE-Turchia

Non solo il Mediterraneo ma anche la Turchia è stata spesso corridoio di ingresso in Europa da profughi e migranti provenienti da paesi lacerati da guerre e lotte intestine che si protraggono ormai da molto tempo. E’ il caso dell’Afghanistan, del Pakistan ma anche della Siria.

E’ in questo solco che l’Unione Europea ha finanziato gli anni scorsi con ben 3Mld di dollari il governo di Ankara per fermare i flussi e chiudere così il passaggio per l’Europa. 

La situazione, che in Turchia si risolve con muri e filo spinato, si presenta molto simile a quella libica dove il modus operandi è differente.

Accordi Roma-Tripoli

La diminuzione dell’80% degli sbarchi nel nostro Paese la si deve soprattutto all’intesa raggiunta dal Governo Gentiloni (con Ministro dell’Interno Marco Minniti) ed il Governo di Tripoli guidato da al-Sarrāj. 

Seppur gli effetti, numeri alla mano, siano tangibili e riscontrabili, permangono molti dubbi sull’effettiva garanzia della salvaguardia dei diritti umani di coloro che vengono trattenuti in Libia.

Il piano di Minniti prevedeva infatti una prima fase di blocco delle partenze dalle coste africane ed una seconda fase di ingresso delle organizzazioni umanitarie e dell’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) per monitorare la situazione e proteggere i migranti bloccati al confine. Se questi erano i propositi, bisogna però segnalare che il piano non ha funzionato nella sua seconda fase e né organizzazioni umanitarie né Unhcr sono riusciti a entrare in Libia. 

A parziale difesa di Minniti si può addurre solo il fatto che questo piano molto ambizioso richiedeva tempo, tempo che l’allora Ministro dell’Interno non ha avuto causa fine del mandato governativo e elezioni politiche del 4Marzo. E quindi? Quindi ancora una volta quello che si è ottenuto è una situazione in cui i barconi vengono sì intercettati dalla guardia costiera libica e riportati indietro ma i migranti, senza la presenza delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie, vengono poi confinati in centri di detenzione che sono veri e propri lager del nostro tempo. Pestaggi, stupri e violenze sono all’ordine del giorno in realtà come queste dove video e testimonianze parlano anche di aste di esseri umani

Frame di un reportage della CNN dentro alcuni centri di detenzione libici

Libia porto (non) sicuro

Ed è con questo sguardo d’insieme (di un fenomeno invece più che complesso) che si ritorna al caso della SeaWatch3. 

Negli ultimi giorni il Ministro dell’Interno Salvini è intervenuto più volte per spiegare il suo rifiuto allo sbarco della nave. Il vice-premier ha infatti dichiarato: “In Italia per quello che mi riguarda e col mio permesso non arriva nessuno, possono mandare i caschi blu dell’Onu, gli ispettori del consiglio d’Europa, il commissario Basettoni, Pippo, Pluto e i Fantastici 4. Barchini e barconi non ne arrivano” prima di accusare la SeaWatch di aver rifiutato lo sbarco in un porto offerto dalla Libia.                  

Su quest’ultimo punto gli ha fatto eco il Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Danilo Toninelli il quale è stato a sua volta smentito da Carlotta Sami dell’Unhcr. La portavoce ha spiegato: “Non esiste alcun centro di raccolta gestito dall’Unhcr. Chi viene riportato in Libia va nei centri di detenzione cui abbiamo accesso limitato. Il ritorno di persone da acque internazionali verso la Libia è contro il diritto internazionale. Non c’è alcun porto sicuro in Libia a oggi”

Sulla loro pelle

Quello che emerge è quindi un quadro drammatico. Una situazione di emergenza in cui l’Europa, nell’incapacità di accordarsi al suo interno, ha deciso di ricorrere al machiavellico fine che giustifica i mezzi. E così sono nati i muri turchi. Così si è finanziata la Guardia costiera libica. E sempre così tante navi di soccorso sono state lasciate in mare, escluse dai porti, in nome della salvaguardia dell’Occidente dall’invasione (o supposta tale) africana. 

Il tutto sulla loro pelle, pelle di migranti. Pelle di donne, uomini e bambini. 

Lorenzo Alessandroni
Lorenzo Alessandroni
Laureato in Giurisprudenza all'Università di Bologna, ora sono praticante avvocato di diritto penale all'ombra delle Due Torri. Amo leggere, scrivere e viaggiare, anche se poi mi limito a commentare in modo boomer cose che vedo sulla home di Instagram. In politica alterno momenti sentimentali a spinte robespierriane, nel mentre sono ancora in attesa del grande Godot italiano: un vero partito di sinistra.

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