venerdì, 20 Dicembre 2024

Brexit docet: non è così semplice

Non lo è mai, o quasi.

Eppure a Giugno 2016 lo schema del dibattito sulla Brexit nel Regno Unito era grosso modo questo: sì all’Europa / no all’Europa. E tanti saluti alle sfumature.

Non è allora difficile comprendere come, in un frangente storico all’ora altamente sottovalutato dai Remainers e dominato dai Leavers, tutto si sia ridotto ad un’ambivalenza tanto semplice quanto errata. 

È stato quindi facile, per i sovranisti, dipingere l’Unione come responsabile di qualsiasi problema e disuguaglianza sociale – dalle mancanze della sanità al problema immigrazione – solleticando quella voglia di ritorno ai fausti di un tempo (epoca imperiale, durata fino agli anni ‘50) di un Paese che per lungo tempo si è dimostrato ambiguo nei confronti dell’Unione che si andava formando e consolidando. 

Un matrimonio mai consolidato

Se è vero che il Regno Unito entrò nell’all’ora Comunità Economica Europea nel periodo post-imperiale e su pressione degli Stati Uniti, nel tempo la riluttanza iniziale si è tradotta in un’incapacità della classe politica di svolgere quella fondamentale funzione pedagogica pro-UE che veniva invece macchiata con continui attacchi.

Non si tratta di illazioni, neanche di speculazioni, ma piuttosto di parafrasi delle parole della gente comune, quella che si sentiva emarginata, non ascoltata e delusa, quella che ancora oggi, anche se in parte, rivendica la Brexit. “A me non interessa niente dell’Unione Europea, ma guarda quanti stranieri ci sono in giro. Io ho votato per uscire”. Queste le parole, ai microfoni del TheGuardian, di un cittadino di Boston, piccola realtà fuori da Londra, dove il Leave ha rappresentato 2/3 dei voti. E ancora “la nostra Sanità é in crisi, basta con i tagli”: queste invece le denunce di un cartellone sempre nella stessa cittadina.

Se non fossero ormai realtà consolidata le fake news che nei mesi referendari inondarono i blog britannici (se ne è parlato in un precedente articolo qui su SistemaCritico), se l’eccentrico brexitier Boris Johnson non avesse mai parlato di “365 milioni guadagnati a settimana” dall’uscita dall’UE “subito reinvestiti nella Sanità”, sarebbe difficile capire ancora oggi quali spinte ci fossero dietro quel voto del Giugno 2016 

Ma le campagne referendarie non durano per sempre

Se la scelta sulla Brexit era stata condotta su binari semplici e superficiali, la complessità del processo messo in moto dall’articolo 50 del trattato di Lisbona (che regola l’uscita volontaria dei paesi membri dall’Unione Europea), ha messo in luce tutta l’inadeguatezza di una classe politica incapace, dopo il trionfo del voto, di concretizzare quanto promesso.  Senza una strategia, senza un piano negoziale, senza un’idea del futuro del paese e con la fulminea scomparsa di alcuni dei Leavers più celebri (vedi Farage), l’esecutivo May si è ritrovato a fare i conti con una realtà complessa e intricata molto lontana dalle paradisiache promesse elettorali.

In questo harakiri politico a cui ormai assistiamo da tre anni a questa parte, il Regno Unito non solo non ha ritrovato il prestigio internazionale che sperava, ma ha anche perso notevole credibilità. Se dopo la vittoria del voto del 23 Giugno 2016 infatti, il suffisso -exit era diventato il cavallo di battaglia dei piccoli e grandi partiti sovranisti di mezza Europa (vedi Frexit, Italexit, Deutschexit, etc.), oggi non solo sembra essere stato ovunque abbandonato, ma addirittura disconosciuto. 

Il Regno Unito non è più il modello da imitare e l’Europa non è più la nave da abbandonare. La terra di Sua Maestà, da effige di una nuova rivoluzione, è diventata realtà da non seguire: bisogna cambiare l’Ue dall’interno, non lasciarla. O almeno questo sembra essere il leitmotiv del momento.

Les jeux sont faites 

Parlare a posteriori è però, come sempre, semplice. Rimuginare su quanto è stato, poi, diventa un esercizio pressoché inutile.

La situazione attuale oltremanica non offre certo consolazione. Dopo ben 3 votazioni negative sul Brexit Deal, una mozione di sfiducia (anche questa naufragata) a Theresa May e varie minacce di No Deal (la famigerata uscita senza accordo), il Regno Unito è in ginocchio. La situazione è senza precedenti: se prima della Brexit la normalità era l’avere un governo monocolore capace di “sovrastare” il Parlamento, oggi assistiamo invece ad un Governo di coalizione (quello della May) che proprio dalla Camera dei Comuni sta ricevendo le maggiori umiliazioni.

In tutto questo il tempo continua a scorrere. Chiesta e ottenuta la proroga da Bruxelles per rimandare l’uscita dall’UE oltre il 29 Marzo, la concessione si è allargata addirittura al prossimo 31 Ottobre. Salvo imprevisti e viste le discussioni che questa ulteriore proroga ha suscitato, quella dovrebbe comunque essere la definitiva data di chiusura.

Tempi supplementari 

Ora la palla torna a Londra. Questi ultimi mesi molto sapranno dirci del futuro del Regno Unito: prevarranno ancora gli interessi di parte e le correnti interne o si arriverà finalmente ad uno sforzo bipartisan che metta al primo posto il Paese? I protagonisti-inadeguati May e Corbyn sapranno riscattarsi? Si arriverà ad un secondo referendum nell’impossibilità di un accordo? Quest’ultima ipotesi è, se possibile, da scongiurare. C’è in ballo la credibilità non solo della classe politica britannica ma anche della democrazia stessa: il voto popolare ha dato tre anni fa un risultato certo e, nonostante le difficoltà che si stanno incontrando, la partita dovrà essere giocata fino in fondo.

Lorenzo Alessandroni
Lorenzo Alessandroni
Laureato in Giurisprudenza all'Università di Bologna, ora sono praticante avvocato di diritto penale all'ombra delle Due Torri. Amo leggere, scrivere e viaggiare, anche se poi mi limito a commentare in modo boomer cose che vedo sulla home di Instagram. In politica alterno momenti sentimentali a spinte robespierriane, nel mentre sono ancora in attesa del grande Godot italiano: un vero partito di sinistra.

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