Sono le otto di una maledetta sera di aprile, nel silenzio surreale della hall risuona un tonfo sordo. Bettino Craxi apre la porta a vetri dell’hotel Raphaël e va incontro al suo destino. Il suo, e quello di un paese che da quel giorno non sarà più lo stesso, perché fuori lo aspetta l’Inferno.
Le monetine contro Craxi: la fine della partitocrazia e la nascita del nuovo Romanzo Populista
Oltre che dalla luce crepuscolare del tramonto romano, il leader socialista viene travolto da una pioggia di insulti e di oggetti che passerà alla storia. Le celeberrime “monetine del Raphaël” sommergono non solo il leone ferito di Tangentopoli, ma l’intero ceto politico della Prima Repubblica, che muore quel giorno. Gioiose e insieme feroci sono le grida di una folla che, sulle note di Guantanamera, scandisce “vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste” e ancora “Craxi in galera, Bettino Craxi in galera”: è la voce della piazza che sta processando l’uomo simbolo dell’odiata Partitocrazia. Con quel “episodio poco commendevole della nostra vicenda repubblicana” (la definizione è di Giorgio Napolitano: auguri di pronta guarigione per lui), si celebra il rito auto-assolutorio di un popolo che, dopo averla ascoltata, omaggiato e votata per mezzo secolo, giustizia in piazza la sua Nomenklatura corrotta.
Cambiano i luoghi e i leader, ma c’è un filo sottile che unisce le monetine del Raphaël di Craxi al Vaffa Day di Grillo, passando per l’infinita parentesi berlusconiana: ma tutto nasce da lì, da quel lontano 30 aprile 1993, con il tribunale del popolo che condanna Craxi prima ancora che lo facciano i tribunali della Repubblica. Per gli italiani e la politica finisce il vecchio Romanzo Popolare e comincia il nuovo Romanzo Populista. Alle monetine si arriva il giorno dopo il discorso di 54 minuti alla Camera, nel corso del quale Craxi denuncia la “criminalizzazione della classe politica, giunta ormai al suo apice” e respinge il processo “storico e politico ai partiti che per lungo tempo hanno governato il paese”. La giunta della Camera lo salva, di lì a poco si scatenerà il putiferio.
“La sera del 29” ricordava Giuliano Ferrara in un’intervista “siamo tutti contenti, vado al Raphaël con una bottiglia di champagne, ma trovo Bettino al bancone del bar tutt’altro che tranquillo. C’è poco da festeggiare, ha già fiutato il clima da caccia alle streghe che monta…”. E lo dice anche: “Vogliono una vittima da immolare, non cercano la mia sconfitta politica, cercano il rogo”. Il vaticinio del segretario del PSI si sarebbe rivelato di una lucidità disarmante: per Craxi la sorte è già segnata sul calendario della Storia.
Il giorno dopo Repubblica esce con un titolo a caratteri cubitali: “Vergogna, assolto Craxi”. Nel suo editoriale Eugenio Scalfari scrive che “dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro questo è il giorno più grave della nostra storia repubblicana. La Nomenklatura corrotta e gli uomini d’avventura sono disposti a tutto pur di non perdere il potere e l’immunità”. Ed è davvero così, in un’Italia che dall’anno prima patisce esausta le stragi di mafia con il sacrificio (il termine più corretto dopo la sentenza della Corte di Assise di Palermo sulla trattativa stato-mafia) di Falcone e Borsellino, i morsi della crisi con una svalutazione devastante della lira e una manovra mostre da 92 miliardi: è questa l’atmosfera tra gli anni di piombo e quelli “di fango”, secondo la felice formula allora coniata da Indro Montanelli.
Nei pochi metri che Craxi percorre dalla porta del Raphaël alla Thema grigio-topo che lo aspetta con lo sportello aperto e il motore acceso, sul segretario precipita qualunque cosa. Compresa la rabbia di una società civile che si presumeva incorrotta, senza esserlo. Poi, dopo che la folla si è dispersa, c’è anche chi si mette a raccogliere il bottino rimasto sull’asfalto. Pare siano 200 mila lire. Tanto valeva dunque quella democrazia deprezzata e sfasciata dal crollo del muro di Berlino, dal malaffare e dalle mazzette. Un sistema collassato, che dopo 25 anni non è stato sostituito da molto altro, se non dall’eclissi delle élite e dal rancore di un popolo in perenne e messianica attesa di un non meglio precisato cambiamento.
“Quelle monetine” osserva ancora Ferrara “sono il battesimo del populismo di oggi, l’incipit narrativo che parte dal mito di Di Pietro, le fiaccolate intorno ai palazzi di giustizia, e arriva fino al trionfo della demagogia anti-casta”. Ricostruzione ineccepibile, se non fosse per un non trascurabile dettaglio. Il nuovo Romanzo Populista è iniziato con il linciaggio ideale di Craxi al Raphaël (per citare Gasset: “l’atto fondativo della ribellione delle masse”) ed è arrivato al Vaffa Day del 20 marzo 2010 a Bologna. In una Piazza Maggiore gremita, Beppe Grillo viene sollevato dalla folla a bordo di un canotto che ormai sta per approdare a palazzo Chigi. Ma in mezzo a tutto questo c’è un signore chiamato Silvio Berlusconi: un caso da manuale di populismo dall’alto e di ribellione delle élite.
Il populismo nella seconda repubblica: un modello descrittivo
Ilvo Diamanti (uno dei massimi politologi italiani) lo sintetizza così: “Dalla rivolta contro i notabili, il populismo precipita nel Cavaliere che appartiene alla loro stessa famiglia, rimpiazza i partiti con le sue tv e con se stesso, conquista il potere attaccando i professionisti della politica”. Un capolavoro, nella sua intrinseca e cinica insensatezza. “Lo storytelling popolocratico” continua Diamanti “ruota attorno a questi tre capitoli: prima la piazza reale (il Raphael), poi la piazza mediale (Berlusconi e le sue tv) e infine la piazza digitale (M5S e la Casaleggio Associati)”. Tre populismi diversi legati dallo stesso collante: l’anti-politica, o addirittura l’odio verso la politica.
Restano almeno due certezze. La prima è che le grandi speranze rivoluzionarie di chi ha vissuto il “lavacro” del Raphaël sono andate clamorosamente deluse. Una parziale ma significativa conferma: andate su YouTube e leggete i commenti che la gente comune ha lasciato nel tempo, in calce al video delle monetine: decine e decine sono i commenti innervati dallo stesso amaro disincanto dovuto ad un’impossibilità tutta italiana di cambiare lo stato delle cose.
La seconda è che oggi, nella colpevole estinzione delle cosiddette “forze di sistema”, l’unica rivoluzione promessa pare quella del M5S, che ha impastato il ribellismo giacobino di Grillo con la melliflua democristianeria (la strategia dei due forni ha fatto seguaci) di Di Maio. Ma resta un dubbio finale: come finirà questa meravigliosa palingenesi etico-morale, questo bagno rigeneratore nelle fonti della democrazia diretta? Se il Romanzo Populista, cominciato venticinque anni fa con la lapidazione di Craxi, finisce con un misero taglio ai vitalizi di 2600 ex parlamentari, sai che rivoluzione.
ALESSANDRO LALONI
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