Jonathan Glazer, dopo il decennale silenzio registico, ritorna sugli schermi con l’obiettivo di disegnare il dolore in una prospettiva differente. Con La zona d’interesse, il regista intesse una tela impregnata di dolore e apatia. Un contrasto talmente forte e surreale da non poter essere raccontato con l’andirivieni di sterili parole.
«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso “sfida”, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale».
Scriveva Hannah Arendt nel 1963 all’interno della sua opera più celebre, La banalità del male. Siamo abituati a concepire il male come un qualcosa di demoniaco, che incarna il malvagio, nell’aspetto e nell’intimità. Capitano però condizioni per cui è l’uomo stesso a modellarsi in fattezze quasi mefistofeliche, facendosi fautore del destino di altri come lui, mutandosi, in ultima istanza, in Morte, distruttore di mondi.
Hannah Arendt la chiamava banalità del male riferendosi alla mancata assunzione di responsabilità e di comprensione delle atrocità commesse dai nazisti, della loro forma di totale indifferenza verso il peccato universale. I protagonisti dell’analisi condotta dalla Arendt non rappresenterebbero l’incarnazione per antonomasia del male, ma banali individui inseriti all’interno di un meccanismo infermale. Banali, appunto, perché non capaci di discernere cosa è bene e cosa è male. Incapaci di sottrarsi ad un sistema macabro e satanico che assorbe interamente chi ne è parte, senza consapevolezza alcuna.
La zona d’interesse : al di là della siepe
L’innocenza del tuffo in un lago, il giardino di una casa in campagna, l’odore dei fiori e del dolce servito sul tavolo: tutti ingredienti che compongono il quadro idilliaco di una normale famiglia. Madre e padre, Rudolf e Hedda Höss (interpretati da Christian Friedel e Sandra Hüller) nel fine settimana organizzano picnic assieme ai loro figli, allestiscono feste in piscina e si rilassano godendosi il sole estivo. La madre cura maniacalmente la serra di casa, come se fosse il suo Eden personale; il padre, di ritorno dal lavoro, bacia i figli sulla fronte. Il ritratto perfetto della banalità di una generazione felice. In tutta questa apparente tranquillità convive il dolore più profondo, declinato dal manifestarsi della più atroce violenza umana. La casa della famiglia Höss costeggia il campo di concentramento di Auschwitz.
Può il dolore tramutarsi in suono?
È questo il grande dilemma su cui si basa il nuovo film di Jonathan Glazer. La zona d’interesse, liberamente ispirato al romanzo di Martin Amis del 2014, sembra apparentemente incentrarsi sulle vicende della famiglia nazista per declinarsi, poi, in un qualcosa già visto e sentito sugli schermi. Il regista, però, non sceglie di raccontare l’Olocausto e l’atrocità di quel abominio: Glazer fa un passo indietro, non valica le porte dell’inferno, rimane fermo sull’uscio della porta. È da questa decisione che nasce la volontà di trattare il male dall’esterno, attraverso i suoni che provengono direttamente da dietro il muro che corre lungo l’abitazione degli Höss. Tutto ciò che avviene all’interno di Auschwitz non è volutamente mostrato allo spettatore: è il suono e la musica – composta da Mica Levi – a mostrare gli orrori che avvengono all’interno del campo di concentramento.
La zona d’interesse : il suono dell’abominio è nero
È quella che comunemente intendiamo come sinestesia (dal greco sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo»; quindi «percepisco assieme») il procedimento retorico che associa in un’unica immagine due sfere sensoriali differenti. Il suono dell’oblio per Jonathan Glazer è nero. Sin dalla prima sequenza de La zona d’interesse lo schermo si manifesta più nero della morte stessa; quello che percepiamo dinnanzi agli occhi è una profondità abissale entro cui il nostro animo è costretto a sprofondare. Sono le urla, la sofferenza, la disperazione ad essere i traghettatori del nostro viaggio verso l’inferno. Il suono è il vero narratore della storia e la violenza è unicamente alimentata dalla sua stessa intensità.
Il muro che costeggia e suddivide le due realtà sonore, parallelamente protagoniste della vicenda, permette al pubblico stesso di estraniarsi, quasi volontariamente, dal contesto entro cui è inserito il racconto. La sensazione di catarsi è costante, tant’è che risulta impossibile allontanarsi dall’orrore sonoro che Glazer ci vuole delineare.
La zona d’interesse : il finale è apatia e verità
Di fronte ad un lavoro cinematografico, siamo abituati a vivere l’esperienza filmica in maniera completamente esperienziale, calandoci in prima persona nei contesti che vediamo susseguirsi sulla pellicola. Il suono, quindi, diviene parte integrante di questo processo cognitivo e emotivo; ma, il sound designer de La zona d’interesse Johnnie Burn si spinge oltre, arrivando a contemplare la possibilità di un mondo puramente udibile, senza l’ausilio del visivo.
Il film è, nella sua totalità, costruito nel piano della semiotica: immagini e suoni si incastrano come due pezzi di puzzle non compatibili, ma costretti ad unirsi per completare l’insieme.
Il finale della pellicola è uno dei più visionari degli ultimi decenni. Qual è la fine che spetta a Rudolf Höss? L’assassinio? Il suicidio? La morte per cause naturali? Non lo sappiamo e, soprattutto, non ci interessa. Gli stessi che invece ricordiamo oggi sono quelli che prima non guardavamo, che nella pellicola stessa non vengono mai inquadrati. Ora però, a distanza di sessant’anni, ne conosciamo le scarpe, gli occhiali, le valige, i nomi. E mentre oggi, in un’apatia quasi contemplativa e nauseante, puliamo le loro cripte e i luoghi che odorano ancora di morte, Rudolf Höss scende le scale della storia, in un labirinto che visivamente riecheggia il buio dantesco dei dannati ai gironi infernali.
Glazer, con grande maestria, ci presenta l’eredità di ciò a cui abbiamo assistito, l’apatia e l’indifferenza disegnate da un muro di pietra, così alto che sembra toccare le nuvole. E così, improvvisamente, dopo il disorientamento di centocinque minuti, siamo di nuovo catapultati nel presente, quello che spesso facciamo fatica a guardare e, soprattutto, ascoltare.