Il neoliberismo non è un ordine naturale, ha bisogno di forme di costrizione e di violenza per imporsi. Come dimostra li caso del default di New York nel 1975.
La storia della crisi fiscale di una delle città simbolo degli Stati uniti, alla metà degli anni Settanta, è un paradigma e un’anticipazione di come i neoliberali siano riusciti per trent’anni ad addomesticare la società. La crisi fiscale della città di New York catturò l’attenzione del mondo. La possibilità che la città più grande degli Stati Uniti – il centro della sua industria finanziaria, la casa di più quartier generali aziendali di qualsiasi altro posto al mondo, la sua capitale artistica e culturale – potesse andare in bancarotta divenne uno spettacolo irresistibile.
Inizialmente, la crisi fu rappresentata come una storia locale, un riflesso di New York e della sua popolazione ibrida, delle sue politiche sociali liberali, delle sue spese dissolute e dei suoi potenti sindacati. Ma i termini della sua risoluzione divennero un esempio per l’imposizione delle politiche neoliberiste in tutto il mondo. La classe dominante prese seriamente il motto “Think global, act local”, e trasformò un problema finanziario cittadino in un evento di risonanza mondiale.
Dagli anni Sessanta in poi, il debito della città era lievitato, raggiungendo gli 11 milioni di dollari nel 1974 (l’equivalente di 54 miliardi di dollari odierni). Il governo giocava un ruolo stranamente espansivo nella vita di New York, dal momento che una cultura politica liberal e decenni di lotte popolari avevano portato alla creazione di un sistema pubblico di massa nella sanità, nell’educazione, nell’abitare e nel trasporti.
Il gettito fiscale locale, federale e statale non riusciva a coprire le spese. L’esodo di molte famiglie bianche della middle class verso i sobborghi, una popolazione povera sempre più numerosa e anziana e il trasferimento di posti di lavoro al di fuori della città contribuirono alla sofferenza fiscale, nascosta da un uso sempre più massiccio di prestiti per coprire i costi operativi. Le società di intermediazione e le banche che sottoscrivevano le offerte per i bond cittadini e possedevano gran parte del debito lasciarono felicemente correre, traendo profitto dalle attività di commercio e da interessi alti ed esentasse.
L’inizio della crisi
La mitica Columbia University era circondata da quartieri in sfacelo, sommersi da cumuli di immondizie, attraversati da spacciatori e da bande sanguinarie in lotta per il predominio del territorio. Un film di successo, “I guerrieri della notte”, aveva mitizzato le strade della Grande Mela. Chi arrivava da fuori veniva avvisato di non uscire di notte, di non prendere la metropolitana. La polizia, corrotta e clientelare, venne messa sott’accusa nel 1971 da un agente, Frank Serpico, che diventerà un’icona con il film interpretato da Al Pacino. La città, emblema dell’America liberal, la capitale della cultura a stelle e strisce (non solo quella pop di Andy Warhol o del Rolling Stone) era alla ricerca di una nuova identità.
Ma quando nel 1973 iniziò un periodo di profonda recessione – il tasso di disoccupazione schizzò al 12% – le risorse si trasformarono in debolezze, e gli investitori diventarono riluttanti a comprare i bond cittadini. Non di meno, la città doveva continuare a contrarre prestiti per rifinanziare il debito insoluto. Ogni mese, una platea sempre più ristretta di finanziatori pretendeva tassi di interesse sempre più alti. Nella primavera del 1975, i finanziatori si dileguarono del tutto, aumentando lo spettro del default.
Con miliardi di dollari in ballo, i cardinali della finanza – guidati da David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank; Walter Wriston, presidente della First National City Bank; Donald T. Regan, presidente della Merrill Lynch; e William Salomon, socio amministratore della Salomon Brothers – si intromisero personalmente negli affari di governo della città, un’arena normalmente al di sotto dei loro radar.
Rimasero sconvolti da quello che videro, incluse pratiche di contabilità arcaiche e trovate come quella di inserire i costi operativi nel bilancio cittadino. Soprattutto si scontrarono con i consiglieri che facevano resistenza all’idea che la città adottasse misure di austerità.
L’operato del governo
Alla guida della città c’era il sindaco Abraham Beame, un funzionario pubblico di lungo corso e parte della macchina democratica di Brooklyn.
“Sono stato informato dal controllore dei conti che la città di New York non ha abbastanza denaro liquido a disposizione per pagare oggi i suoi debiti. Siamo così al fallimento che abbiamo tanto lottato per evitare”.
Per alcuni, la crisi era un’opportunità per attaccare frontalmente lo stile socialdemocratico, con i suoi alti tassi di sindacalizzazione, salari generosi e una regolamentazione governativa pervasiva (incluso il controllo degli affitti). I leader conservatori di Washington, tra cui il Segretario del Tesoro William Simon e il Capo di gabinetto della Casa Bianca Donald Rumsfeld, promossero una soluzione radicale alla crisi finanziaria. Si allinearono con i principali imprenditori a livello nazionale al fine di costruire un ambiente sociale e politico capace di portare alla restaurazione di investimenti solidi e di un saldo potere della classe dominante, dopo decenni di deriva a sinistra in seguito ai movimenti per i diritti civili e ai conseguenti movimenti sociali.
I titani della finanza come Rockefeller ed Elmore Patterson, capo del Morgan Guaranty Trust, non erano contrari a un intervento statale nel mercato, se questo significava proteggere i creditori e prevenire la bancarotta cittadina. A Washington, tuttavia, incapparono in ideologie con aspirazioni più grandi. Simon, che aveva aiutato a costruire il debito della città in qualità di operatore di borsa, lo vedeva ora come un grimaldello utile a portare la filosofia di governo-nazionale, come la chiamava lui, lontano dallo stato sociale.
Simon rifiuto la richiesta di aiuto della città, e così fece il presidente Gerald Ford.
Al Congresso, New York incontrò un clima di ostilità non solo in virtù della sua presunta dissolutezza, ma anche per la sua apparente non americanità. Una popolazione in gran parte ebrea, afroamericana e portoricana e con un ben noto disprezzo per quella che il giornalista del New Yorker, Harold Ross definì, con un’espressione rimasta famosa, la “vecchia signora di Dubuque”, stereotipo di un provincialismo ignorante.
Nuovi interventi nella crisi
Senza aiuti federali all’orizzonte, il governatore dello stato di New York Hugh Carey prese il comando, e lavorò insieme al leader aziendali e finanziari per sviluppare una serie di nuove strutture di governo, costringendo la città ad accettare.
Il primo fu il Municipal Assistance Corporation (Mac), autorizzato dallo stato a vendere bond per ritirare il debito cittadino e assumere il controllo sulle entrate fiscali. Il consiglio d’amministrazione, non eletto, era dotato di ampi poteri, dal momento che poteva rifiutarsi di prestare denaro alla città se le sue richieste non venivano soddisfatte. Malgrado un’ondata di proteste popolari e sindacali, il MAC costrinse i consiglieri della città a licenziare decine di miglia di lavoratori, ad aumentare i dazi di transito e a imporre una tassa d’iscrizione all’Università di New York, storicamente gratuita. Iniziarono a bloccare i salari, a tagliare i sussidi sociali.
Quando il MAC e i tagli si rivelarono insufficienti a rivitalizzare il mercato del debito cittadino di New York, lo stato creò un nuovo corpo, l’Emergency Financial Control Board (EFCB).
Rispetto al MAC aveva ancora più potere sulle finanze cittadine, incluso quello di rifiutare i contratti di lavoro e rimuovere dall’incarico il sindaco e altri consiglieri se si rifiutavano di sottostare alle loro politiche. Eppure gli investitori ancora non tornavano.
Alla fine, la città dovette rivolgersi altrove per ottenere il denaro che le serviva per saldare i suoi debiti. Innanzitutto, iniziò a intaccare le enormi riserve dei fondi di pensionamento pubblici, cosa che richiese l’acquiescenza di quegli stessi sindacati i cui membri erano i diretti beneficiari dei fondi.
In secondo luogo, tornò a Washington. Questa volta ebbe più successo. Le persone più serie erano preoccupate dalle possibili ramificazioni di una banca di New York dentro un quadro economicamente turbolento e nel mezzo della Guerra Fredda. Il governo federale diede il consenso a prestiti stagionali alla città, ma impose una nuova serie di controlli che Simon utilizzò per aumentare le tasse locali e trasferire alcuni costi pensionistici dalla città ai lavoratori stagionali.
I pesanti tagli al budget significarono lavoratori pubblici licenziati, scuole sovrappopolate, ospedali chiusi, alto tasso di criminalità, continui incendi dolosi, metropolitane rotte e strade devastate. Eppure, la vittoria della finanza e dei conservatori si rivelò limitata, dal momento che i sindacati cittadini, in particolare grazie ai fondi di investimento pensionistici, mantennero una capacità di contrattazione e gran parte del loro potere. La regolamentazione sugli affitti non venne smantellata, e le tendenze socialdemocratiche vennero mitigate ma non cancellate.
La nascita di un paradigma neoliberista
A livello nazionale e internazionale, tuttavia, la guerra lampo della finanza e degli ideologi del libero mercato contro il welfare state di New York ebbe profonde conseguenze. Fornì un modello su come usare le crisi del debito per imporre ristrutturazioni neoliberiste e rivelò la possibilità di fare passi importanti contro accordi sociali radicali.
Preparò il terreno per future battaglie, come l’attacco di Ronald Reagan ai controllori del traffico aereo in sciopero e quello di Margaret Thatcher contro i minatori.
La soluzione della crisi di New York non era affatto ispirata alle logiche del libero mercato. Fu invece un esempio di corporativismo aggressivo, che utilizzò il credito pubblico per salvare interessi privati mentre i lavoratori erano costretti ad accettare l’austerità. Il potere insito nell’uso della riduzione del debito fu usato come arma per cambiare le relazioni sociali ed economiche a danno dei lavoratori e a vantaggio dei grandi interessi finanziari.
Tre anni dopo, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) raccolse il testimone, quando il Messico si trovò insolvente nei confronti del suo debito sovrano. L’FMI negoziò un programma che prevedeva per il governo messicano di adottare una serie di misure di austerità. In breve tempo, il Fondo iniziò a collegare la riduzione del debito per i paesi in difficoltà ad aggiustamenti strutturali. Questi però abbassavano gli standard di vita dei lavoratori, promuovevano la privatizzazione e aprivano le porte al commercio e agli investimenti esteri.
La soluzione della crisi fiscale di New York fu far ripagare gli investitori ai lavoratori impoveriti, utilizzare corpi non eletti per supervisionare la democrazia locale e forzare un allontanamento dalle politiche socialdemocratiche. Divenne una ricetta globale. In senso più ampio, il thatcherismo e il reaganismo sono stati delle estensioni della controrivoluzione di New York. Hanno, infatti, trasferito il potere nelle mani delle élite economiche, denigrato l’efficacia del governo, esaltato il mercato e dato priorità alle soluzioni private su quelle pubbliche.