venerdì, 22 Novembre 2024

Potere e cultura. Un rapporto (in)conciliabile?

Da Mecenate a Croce, dall’impero romano ai giorni nostri. Il filo rosso che unisce cultura e politica si dipana in un dibattito anche oggi molto acceso. Oltre i problemi di filosofia civile e sociale, la necessità di una maggiore attenzione e di una minore intromissione da parte del potere.

Un problema di antica origine

Sin dal momento in cui la civiltà umana ha iniziato a svilupparsi, la cultura ha cercato in molti modi una convivenza con il potere che le permettesse di raccontare i suoi aspetti storico-sociali. Con il passare del tempo, tuttavia, questa convivenza è diventa estremamente complicata a causa dei giudizi e delle critiche che la cultura ha iniziato ad avanzare nei confronti dei potenti. Si aggiunga poi l’incapacità sempre più marcata dei suoi autori di raccontarne le vicende sine ira et studio. Si è delineata in questo modo, nel corso dei secoli, una divisione della cultura in due fazioni opposte. Queste possono essere definite semplicisticamente “del consenso” e “del dissenso”.

Consenso nell’antichità: Callimaco e Mecenate

Un primo esempio del difficile rapporto tra cultura e potere può essere trovato nella figura di Callimaco di Cirene. Questo poeta, operante nel corso del III sec. a.C., viene considerato da molti studiosi il massimo rappresentante del legame che, in epoca alessandrina, unì alcuni autori del tempo con la stirpe dei Tolomei d’Egitto. La ricerca da parte di questi sovrani di un punto di vista comune con i letterati che vissero sotto il loro regno ha creato per la prima volta nella storia culturale del mondo le condizioni per la creazione di un legame tra il poeta, impegnato nella sua opera di diffusione e sistematizzazione del libero pensiero, e le figure impegnate nell’amministrazione dello stato. I protagonisti sono Tolomeo II e Tolomeo III (non a caso chiamato Evergete, ossia benefattore, in onore della sua fama di filantropo).

Questa primordiale forma di mecenatismo trova compimento tre secoli dopo in colui che al mecenatismo ha dato i natali. Si parla ovviamente di Gaio Cilnio Mecenate, incaricato dall’imperatore Augusto di curare i rapporti tra principato e cultura. Da notare come anche in questo caso il potere non abbia voluto imporsi, ma abbia anzi cercato di salvaguardare l’ispirazione personale e l’indipendenza intellettuale degli autori, costruendo un rapporto basato sull’amicitia. In questo modo il cosiddetto Circolo di Mecenate divenne il centro d’irradiazione di un ampio progetto culturale, mobilitando scrittori, architetti e artisti.

In questo dipinto del Tiepolo le belle arti vengono offerte da Mecenate ad Augusto (Arte.it)

Alla luce di questi esempi il rapporto tra cultura e potere sembrerebbe essere positivo e basato sul consenso. Il potente riesce ad instaurare un legame con il poeta, che oltre ad esprimersi attraverso la filantropia trova un punto comune nella reciproca disponibilità. Questa lascia di conseguenza spazio ad alcune omissioni da parte del poeta sugli aspetti negativi del potere.

Dissenso nell’antichità: Tacito

Volendo poi esaminare l’altra faccia della medaglia, quella legata al dissenso, non si può non parlare dell’opera di Publio Cornelio Tacito. L’analisi del pensiero e delle idee politiche di questo autore di età Romana, tuttavia, risulta essere oltremodo complicata. L’ostacolo è rappresentato dalla sua tendenza nel transitare molte volte da un giudizio oggettivo ad un biasimo totale verso alcuni degli aspetti che caratterizzarono i primi imperatori di Roma.

Egli infatti ha analizzato dapprima con lucida freddezza l’inevitabilità dell’avvento di un principato che, portando ad una stabilizzazione di una repubblica squassata dalle guerre civili, viene visto dall’autore come unica soluzione possibile per salvare lo Stato dal caos. Questo motivo si ricollega ad un altro punto fondamentale della poetica tacitiana, la volontà di parlare dei fatti di Roma sine ira et studio, con una prospettiva distaccata nei confronti del potere.

La degenerazione dello stato

In seguito, tuttavia, si inizia a notare come Tacito, nonostante la sua professione di oggettività, in realtà non riesca a trattenersi dal criticare in maniera piuttosto veemente alcune delle azioni compiute dai potenti. In questo modo ci si avvia verso quello che sarà il vero esito del suo lavoro, un pessimismo sempre più accentuato nei confronti dei meccanismi che regolano il potere. La consapevolezza di una degradazione che colpisce tutti, a partire dallo stesso imperatore. Fino ad arrivare al senato, un tempo baluardo della libertà romana e criticato dall’autore per quel servilismo ossequioso che egli disprezza più di tutto.

Tacito, dunque, rappresenta un dissenso che trova radici nelle condizioni politiche in cui l’autore si trova a vivere e nella mancanza di un compromesso. Un dramma che può avere soluzione solo nel crollo dello stato, non lasciando spazio per la riconciliazione o per l’illusione di un governo moderato.

Consenso in età moderna: il Manifesto dei fascisti

Con l’avanzare dei secoli si fa sempre più strada il termine “propaganda”. Un concetto già in qualche modo presente tra gli antichi ma sviluppatosi pienamente nel corso del XX secolo. Questa, infatti, ha permesso ai regimi totalitari del ‘900 di trovare una giustificazione per le violenze perpetrate in quegli anni.

In particolare rimane per i posteri un chiaro simbolo di questa influenza ideologica. Il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, redatto dal Convegno per la cultura fascista di Bologna nel 1925, riflette in modo evidente l’opera che il regime intraprese con l’aiuto di Giovanni Gentile (ministro della pubblica istruzione, promotore dell’Istituto Nazionale di Cultura fascista e della ben nota riforma del sistema scolastico), nel tentativo di vincolare a sé gli intellettuali del tempo.

Giovanni Gentile

Contro il regime culturale: il Manifesto degli antifascisti

I risultati di questo tentativo, tuttavia, se pure attirarono alla causa fascista alcuni importanti uomini di cultura (basti pensare solamente ad alcuni dei firmatari, come Gabriele D’ Annunzio e Luigi Pirandello) provocarono anche la reazione degli intellettuali “liberi”, tra i quali spiccava Benedetto Croce. Egli mise mano, su sollecitazione di Giovanni Amendola, alla stesura del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, che doveva costituire una replica al Manifesto di Gentile. La pubblicazione di questo scritto sancì lo smarcamento dalle posizioni fasciste. Esso inoltre fece guadagnare a Croce la qualifica di “coscienza morale dell’antifascismo italiano” e di “filosofo della libertà”. Anche questo documento riuscì ad attirare a se un gruppo di intellettuali di grande fama.

“E, veramente, gl’ intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’iscriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore. Il quale, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione
della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso.”

Il punto centrale del Manifesto

Il dissenso, in questo caso, più che criticare il fascismo nella sua particolarità si rivolge contro tutti quei potenti che, nel corso della storia, hanno usato la cultura più come un modo per accrescere il loro potere che come uno strumento attraverso il quale innalzare l’uomo.

Quale rapporto tra cultura e potere nel 2021?

Si può dunque affermare che la cultura sia riuscita a convivere con il potere laddove vi fossero delle condizioni per la sua libera espressione. Soprattutto per ciò che riguarda l’analisi e la critica dei meccanismi del potere stesso. Quando invece queste condizioni non si sono verificate si è assistito ad una reazione da parte degli intellettuali per rivendicare la loro autonomia.

Ciò si riscontra anche al giorno d’oggi. Un articolo, uno scritto o un pensiero che analizzi le idee di una qualsivoglia figura politica viene molto spesso preso di mira dallo schieramento politico che la appoggia, qualora in esso compaia anche solo un minimo accenno critico. Oppure questo viene attaccato dallo schieramento d’opposizione, qualora sia presente un’analisi in qualche modo troppo positiva, anche se obiettiva. Inoltre ci si accorge sempre più del rischio che le notizie di libri, giornali e televisioni sotto il controllo della politica vengano manipolate in favore della magnificazione o della giustificazione di un particolare soggetto di potere.

In questo modo la cultura perde la sua funzione di guida morale e di coscienza per il genere umano. L’unico antidoto sta nella doppia responsabilità. Quella del lettore, il quale è tenuto ad informarsi nel modo più approfondito possibile. E quella dell’intellettuale, poiché non esiste altra storia o informazione se non quella raccontata senza compromessi, sine ira et studio.

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Matteo Moglia
Matteo Moglia
Di marca bellunese dal 1994, laureato in Lettere Classiche e Storia Antica all'Università degli studi di Padova. Professore di greco e latino, giornalista e speaker radiofonico, lavoro tra Belluno e Padova. Plasmato della storia e della scrittura, oscillo tra il mio carattere perfezionista ed il mio pensiero relativista (non a caso sono un grande fan del maestro Battiato). Appassionato di politica, liberale convinto.

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