Si è conclusa la prima serata di “Vietato Vietare”, la sesta edizione del festival Popsophia dedicata ad uno degli slogan più famosi del maggio francese, in occasione del cinquantesimo del Sessantotto. Gli appuntamenti della prima serata hanno voluto coniugare, attraverso le parole chiave “femminismo” e “gioventù”, i temi della vulnerabilità e della libertà: il Sessantotto, aprendo una vera e propria “breccia culturale”, per la prima volta nel corso della Storia ha dato diritto di enunciazione a chi (donne ed adolescenti) non ne aveva.
La serata, dopo un commovente ricordo della filosofa Monia Andreani, recentemente scomparsa, si apre con un intervento di Angela Azzaro (caporedattrice de “Il dubbio”) sulla rivoluzione sessuale innescata dalle istanze sessantottine: le donne — mette in evidenza la Azzaro — cambiano completamente un mondo che le ha escluse e relegate ai margini di una società in cui non si sono sentite rispettate. E nel farlo mettono in discussione tutto: descrivono la divisione tra pubblico e privato come una menzogna su cui è stato costruito il potere maschile — lo “sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi è il rifiuto di tutta la cultura occidentale, cristallizzata nel suo maschilismo — e che le ha relegate ad un compito di cura, ma rivendicano anche un “principio di autodeterminazione” del proprio corpo: “il corpo è mio e lo gestisco io”. Per la prima volta viene messo al centro il piacere delle donne, che esigono il diritto di godere per se stesse e non in funzione dell’uomo, aiutate anche dall’introduzione della pillola contraccettiva che garantisce la separazione della procreazione dalla sessualità. Il femminismo, assieme ai movimenti di omosessuali e transessuali, ripensa un mondo più libero per tutti e questa radicalità non resta sospesa, ma trova la sua più piena realizzazione negli anni 70: pensiamo — ricorda la Azzaro — alla legge Basaglia, a quella sull’aborto e sul divorzio, ad un più generale ripensamento del welfare.
Ma oggi — è la domanda cruciale posta dal palco di Rocca Costanza — che cosa resta? Abbiamo la sensazione di una diffusa regressione, specie in un contesto segnato dal prepotente ritorno di destre sovraniste che alimentano la paura del diverso. Ma la rivoluzione delle donne, intesa come promozione di soggettività plurali e aperte (“le donne non hanno patria perché la loro patria è il mondo” diceva la Woolf), può e deve continuare: l’esempio più vicino ai nostri giorni è quello di Me Too, una battaglia contro le molestie, un movimento che ha ribadito il no al sopruso, ad un potere maschile che mal sopporta la libertà femminile. Ma la Azzano mette comunque in evidenza il rischio di scadere in aspetti moralistici: non bisogna negare la presenza di questa possibile degenerazione, perché quella gogna mediatica utilizzata per eliminare il nemico potrebbe ritorcersi contro le istanze promosse dal movimento femminile stesso.
La partita della contestazione giovanile — ricorda in apertura la direttrice artistica Lucrezia Ercoli, passando all’altro grande soggetto della serata: i giovani — si gioca sul piano dell’immaginario: quello che si sta animando è un rinnovamento che, dalla sub-cultura, arriva sul palco principale. “Quando arriverà l’era dell’Acquario, allora i nostri sogni saranno realizzabili, allora lasceremo entrare il sole e il mondo potrà finalmente cambiare” cantavano i Fifth Dimension: i cavalieri di questo cambiamento sono i giovani — il vero soggetto, insieme alle donne, della prima serata del festival — che attraversano individualmente l’adolescenza e trovano una generazione che affronta con loro gli stessi problemi, che cercano di attraversare il fiume tempestoso di quel cambiamento inevitabile che serpeggiava nella società. E’ in questo momento che la sub-cultura giovanile entra nello spazio pubblico e chiede per la prima volta di essere ascoltata, ma per essere ascoltata deve rompere con il discorso dell’autorità, deve, con Kant, “lasciare il girello e camminare da solo”: lo stesso Kant cita una frase di Orazio (Sapere aude) che si traduce nel coraggio di prendere le redini della conoscenza, e quindi della decisione sul futuro. Foucault, altro grande protagonista di questa rivoluzione, riprenderà lo stesso testo di Orazio e lo interpreterà come diritto alla disobbedienza: l’architettura di conoscenze dei padri può essere messa in discussione solo con un certo tipo di azioni che, nel caso della contestazione sessantottesca, passano attraverso un immaginario che si forma in un momento rituale, mitico ed eversivo come quello del concerto rock: è proprio attraverso la musica che si sprigiona un’energia che rende l’individuo una comunità. Il concerto (Woodstock in primis) diventa per gli adolescenti rito di separazione e di ricollocazione in uno spazio liminale, in cui non ci sono gli adulti e i giovani possono esprimere se stessi, splendere in carriere fiammeggianti e al contempo malinconiche. I musicisti rappresentano non soltanto il momento della spensieratezza, della pausa dalla vita normale, ma anche una pietra angolare nell’immaginario collettivo di questa generazione: in queste figure rivoluzionarie (su tutte quella indimenticabile di Jimmy Hendrix), i giovani riconoscono una cesura, un’operazione di parricidio: i giovani sono afasici e per prendere la parola devono uccidere l’autorità, non solo quella del padre ma anche della scuola e dell’istituzione.
Ma che rapporto c’è — si chiede Simone Regazzoni, scrittore e docente all’università di Pavia — tra filosofi e giovani in rivolta? Che cosa ha da dire la filosofia ai giovani? La filosofia è uno spazio di non sapere, nel suo originario significato socratico e platonico: la filosofia entra sulla scena del mondo occidentale con la voce di un filosofo (Socrate) che non ammaestra su nulla ma che, nel dire ai giovani di mettere in discussione ogni orizzonte di sapere, viene accusato di averli corrotti. Al suo debutto, la filosofia si iscrive dunque nell’orizzonte del non sapere e della corruzione giovanile. Ed è qui che possiamo trovare il punto di condensazione tra gioventù, rivolta e filosofia: sulla scorta del celebre mito platonico, la filosofia è il movimento di rivolgimento su se stesso (periagoghé olés tés psychés) di chi, uscendo dalla caverna, mette in discussione il chiuso orizzonte di realtà e di sapere che i cittadini hanno da sempre osservato sul fondo della caverna. La filosofia, in origine, è dunque la rivoluzione dell’anima su se stessa, prima ancora di rompere qualcosa all’esterno, la rottura deve essere di tipo interiore: senza il rivolgimento su se stessi, continuando a camminare sul sentiero già tracciato (“se sapessi dove vado, allora non ci andrei” diceva Derrida), non c’è esperienza filosofica. E la filosofia si rivolge ai giovani proprio perché in loro vede una potenza di esistenza che non c’è altrove, vede la possibilità di lasciarsi alle spalle il passato e reinventare il futuro. Se oggi il nostro modello educativo oscilla tra lassismo (fai quello che vuoi) e moralismo (fai quello che ti dico io), il compito del filosofo esula da entrambe le alternative: non fai ciò che vuoi, né fai ciò che ti dico io ma, a partire da un moto di rivoluzione interiore, diventa ciò che sei e cioè sperimenta potenzialità inedite anche a rischio del fallimento, mettiti in gioco costantemente.
Ma, cinquant’anni dopo, a cosa si ispirano i giovani di oggi? Stranger Things, una delle serie tv più famose degli ultimi anni, non guarda al futuro come le istanze sessantottine, ma nostalgicamente al passato: gli anni ’80 vengono rievocati attraverso la musica, il vestiario, gli atteggiamenti. L’adolescenza raccontata da questo teen drama guarda ad un mondo perduto e ci ricorda due caratteristiche dell’adolescenza: la prima è l’espansione della vita dell’adolescente che vuole varcare i confini e catturare un segreto. In questa serie il mistero, l’antagonista non sono aldilà della casa, ma dentro le mura, nel mondo Sottosopra: i quattro ragazzini percorrono le strade dell’avventura per scoprire quella parte oscura che in realtà albergava già da sempre nel loro cuore: un viaggio nel perturbante, in quell’estraneo che non è fuori dai nostri confini, ma che riposa in ciò che ci è più familiare e vicino. Ed ecco qual è l’altra caratteristica dell’adolescenza: si tratta del viaggio, il modo (secondo Elias Canetti) dell’adolescente di testimoniare la voglia di andare aldilà di ogni confine noto. E il viaggio di questi adolescenti è cementato da un’altra grande caratteristica generazionale, quella dell’amicizia: i quattro protagonisti della serie (come peraltro quelli di Stand By Me) sono connessi da un forte legame di amicizia: è con gli amici che si compie il viaggio e la scoperta.
A cinquant’anni di distanza — ci ricorda Lucrezia Ercoli — l’adolescenza è ancora un’età nichilista e sognante, un’età di dubbi e incertezze che passano attraverso una porta stretta, alla quale, a volte, rimangono appesi frammenti della nostra carne. E in questo difficile rito di passaggio le narrazioni della cultura contemporanea, così come allora lo erano i romanzi di formazione, aiutano la società a farsi carico di quelle domande inquietanti che troppe volte fingiamo di non vedere. Ecco perché la riflessione sul Sessantotto, su un anno che ci sembra di poter rievocare solo nostalgicamente, ci aiuta a capire che quella generazione non è tanto diversa da questa, che quei turbamenti ritornano e sono sempre gli stessi.
ALESSANDRO LALONI