lunedì, 18 Novembre 2024

2666 di Roberto Bolaño, specchio abissale del nostro presente

Un grande romanzo è sempre una preziosa lente sulla realtà. Questo è senza dubbio il caso di 2666 di Roberto Bolaño, illustre autore cileno della nostra contemporaneità, scomparso nel 2003 all’età di cinquant’anni. Figlio degli anni del “golpe de estado” di Pinochet, ha presto lasciato il suo Paese natale per vivere tra il Messico e la Spagna, dando sfogo alla sua penna, pregna di realismo e non certamente ignara dei paradossi dell’umano. Il suo frutto più famoso è 2666, romanzo mastodontico composto da cinque parti autonome, eppure sotterraneamente legate da lacci che un lettore attento può talvolta rinvenire.

Foto di Roberto Bolaño, autore di 2666 (Getty Images – Raphael Gaillarde)

Pinche desierto!

La trama di 2666 è delle più articolate e forse non ha nemmeno senso cercare di farne un riassunto, tanto è complessa la matassa dell’ordito intrecciata dal narratore. Forse è più utile concentrarsi su qualche fuoco acceso da Bolaño lungo l’arco del racconto. E quale fuoco più caldo di quello alimentato dai diversi riferimenti al Deserto del Sonoravero e proprio inferno in terra, in cui le vite di molti personaggi terminano misteriosamente? Nelle cinque sezioni del romanzo baluginano scene di delitti e violenze aventi come setting questo luogo di desolazione, collocato nel Nord del Messico, appena sotto il nefasto confine statunitense.

Il Sonora risulta così essere il grande protagonista del romanzo, simbolo del male che attanaglia l’uomo. Lì scivolano inspiegabilmente gli abitanti dell’universo narrativo di Bolaño, quasi calamitati per un motivo ignoto verso questa regione ai confini del globo. Ed è proprio ai margini, ai bordi dimenticati della Terra, che si trovano gli scarti dell’umanità.

Tra cimitero e discarica

Scorrendo le pagine di 2666, il paesaggio che si delinea nella mente del lettore è estremamente lugubre: femminicidi impuniti e crimini brutali sono fatti di cronaca quotidiana e, alla lunga, non destano più clamore. Noia e orrore si confondono in una cruda rassegna di corpi martoriati da un male anonimo e implacabile. Le membra tumefatte – che non possono più dirsi umane tanta è la violenza perpetrata – sono pezzi di carne destinati a finire nei numerosi basureros (“discariche”) che costellano il Deserto. La deiezione sembra dunque essere il marchio di questo posto e, per sineddoche, di tutto il continente latinoamericano.

A riguardo, molti critici di Bolaño hanno riconosciuto in quest’immagine un significato profondo e di portata globale: il 2666 non è altro che la data di un futuro lontano (ma neanche troppo) in cui la morte e la distruzione si imporranno, rendendo il Messico e l’America Latina un enorme cimitero mondiale. E se si pensa alle funzioni del cimitero e della discarica, si dovrà ammettere che questi due spazi hanno molte somiglianze; per certi versi, sono entrambi deposito di rifiuti di cui ci si vuole disfare al più presto, luoghi dove vanno a finire le cose che non servono più.

Un inferno dalle parti di Iquique

Individuata tale sintonia tra i due ambienti, sarà ora interessante portare lo sguardo su ciò che accade effettivamente in Sud America oggi e confrontare la profezia di Bolaño con la realtà di quelle terre. In particolare, occorre spostarsi verso sud, facendo tappa in un altro deserto, il Deserto di Atacama – tra il Cile e il Perù. Questo territorio detiene il record di zona più secca del pianeta ed ospita al suo interno salares di rara bellezza e paesaggi mozzafiato, con toni di colore che passano dal verde, al giallo e al rosso, a seconda degli elementi presenti nel suolo. Tale paradiso terrestre, però, ammette al suo interno – a guisa di oasi – il nostro inferno bolañano.

Dalle parti del Porto di Iquique, a circa 1800 chilometri da Santiago del Cile, si estende una discarica a cielo aperto, che accoglie vestiti di prima, seconda e terza mano provenienti da Europa e Stati Uniti. Trasportati su navi cargo, capi di ogni genere buttati dai primi proprietari raggiungono le sponde sudamericane; qui i “più fortunati” entrano in un nuovo mercato – quello dei negozi e delle bancarelle locali -, mentre la maggior parte (circa 40mila tonnellate ogni anno) finisce nel Deserto. Si creano così delle vere e proprie isole di poliestere e cotone che, oltre a essere un danno visivo non da poco, generano dei problemi a livello ambientale e sanitario, dal momento che l’unico metodo davvero efficace per lo smaltimento è il rogo generale.

Il trend dell’orrore

Come si è arrivati a questo? La risposta non è così lontana da noi, a dire il vero. Negli ultimi anni, il cosiddetto fast fashion ha preso sempre più piede nel mondo occidentale, implementando i consumi da parte dei compratori ed alimentando una macchina di produzione globale che presenta come polo di fabbricazione la Cina o il Bangladesh e come luogo di decongestionamento il Sud America. La dilagante cultura dell’usa-e-getta ha dei costi enormi, ma né l’Europa né gli Stati Uniti sono intenzionati a volersene far carico. Il motore del consumismo deve continuamente essere alimentato e, dunque, è meglio buttare che riciclare – specie se le conseguenze del gesto non vengono minimamente avvertite dai responsabili. Lasciare le problematicità ai margini del mondo pare essere il pensiero dominante; il profitto a qualunque prezzo è il diktat che regola la logica del mercato.

E così si generano inevitabilmente zone dove stagnano le cose che non servono più, reali crateri dell’Averno, dove oggetti e esseri umani sono destinati a soccombere senza un perché. In questo senso, risulterà azzeccata l’espressione spazzatura-umana, coniata da Baumann per descrivere gli esiti tragici di una modernità caratterizzata da squilibri e disuguaglianze tra paesi sviluppati e paesi emergenti.

Deiezioni di un capitalismo iniquo, gli abitanti di Alto Hospicio – il comune cileno con il record di tonnellate di rifiuti – ricordano i personaggi bolañani che vivono a Santa Teresa, cittadina nel Deserto del Sonora, definita da uno dei protagonisti del romanzo, Fate, come qualcosa «a metà strada fra un cimitero dimenticato e una discarica». A queste parole fa eco il rassegnato realismo di Patricio Ferrara, sindaco di Alto Hospicio, pienamente consapevole del degrado a cui è condannato quel lembo di terra: «Sfortunatamente abbiamo trasformato la nostra città, la nostra regione e il nostro paese nella discarica del mondo». Sicut dixit Bolaño.

Alessandro Dowlatshahi
Alessandro Dowlatshahihttps://www.sistemacritico.it
Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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